Giovanni Floris e il non-giornalismo che campa di rendita, finché dura
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Per la terza - forse quarta, quinta, sesta boh - settimana consecutiva Giovanni Floris ha proposto agli spettatori di Di Martedì il tema delle pensioni, chiamando a discuterne gli stessi ospiti che già ne avevano discusso nelle puntate precedenti (Giuliano Cazzola in quota pro-Fornero, la telegenica esponente delle partite in quota anti-Fornero), mandando in onda i medesimi servizi con i vecchietti ripresi nei loro pomeriggi al Bingo a testimoniare le difficoltà di una vita con la pensione minima, e - a marcare l’abisso - i ritratti speculari delle ereditiere con reversibilità milionaria. Da tre (o forse quattro, cinque, dieci) settimane - che in realtà sono ormai anni - Giovanni Floris manda in loop la stessa identica trasmissione. Imbarazzante.
Lo schema giornalistico del fu-conduttore di Ballarò è il medesimo schema che il nostro ripropone - tal quale - dalla prima puntata del talk show di Rai Tre, datata ormai oltre un decennio fa. Lo schema prevede la rapida contrapposizione non di argomenti, ma di battute tra ospiti che siano chiaramente identificabili per appartenenza - ad un partito o una categoria. Il conduttore si aspetta che l’ospite esegua la parte, attenendosi strettamente al copione che l’appartenenza a quel partito o quella categoria presuppone: slogan al più. Lo schema prevede anche - e questa va riconosciuta come peculiarità del sorridente Giova - che l’ospite non si addentri in un ragionamento complessivo né che venga guidato ad affrontare i fatti giornalisticamente acclarati, né a confrontarsi con i dati redazionalmente verificati: un pour parler noioso, stanco, ombelicale, inutile.
Floris pone la sua domandina pleonastica interrompendo l’ospite nel momento in cui quello sta per accennare al ragionamento - qualora l’ospite di turno sappia davvero esercitare la facoltà di proporne uno. Al conduttore non interessa far progredire la discussione sul tema: interessa rispettare la scaletta pateticamente reiterata di puntata in puntata, di battuta sloganistica in battuta sloganistica, di servizio già visto e rivisto ad altro servizio stravisto e stra-rivisto. Il conduttore occupa così lo spazio televisivo in prima serata, tracima a piè pari in seconda, arriva ancora sorridente al catartico “alè" quando notte è ormai fonda e davanti alla tv ci sta solo chi giustamente in quel talk trova un modo omeopatico ma sostanzialmente efficace di curare l’insonnia.
MacKenzie McHale, la mitica producer di Newsroom (serie HBO), avrebbe probabilmente difficoltà a definire questo di Floris "giornalismo". Dal giornalismo ci si attendono notizie. Dall’approfondimento televisivo punti di vista, meglio se nuovi o diversamente illuminanti. Ci si attende dal talk che affronti temi, li svisceri, confronti opinioni accreditate, indaghi, smascheri. Ci si attende cioè che lasci lo spettatore con la sensazione di aver appreso qualcosa che prima non conosceva. Ma quello che si ricava ad ogni nuova andata in onda del talk di Floris è esattamente quello che si è ricavato nelle precedenti migliaia di puntate del medesimo talk. Nessuna nuova. Non è neanche spettacolo, quello di Floris: non ci si diverte, non si viene né sorpresi né intrattenuti - se non da Crozza, il quale tuttavia ha anche il suo show il venerdì sera e di mestiere fa il comico, non il giornalista.
Potremmo anche chiudere qui la questione - che si trascina stancamente da ormai oltre un decennio televisivo e che evidentemente non riguarda il solo ben pagato conduttore de La7. C’è Netflix, c’è SkyOnline, ci sono gli altri canali e i libri la musica: c’è produzione di contenuto nel mondo, fuori dalla tv italiana. Rileva parlarne tuttavia perché quel modello parassitario di produzione di contenuti è una metafora perfetta del modello parassitario di produzione tout court, in Italia, dove appunto non si produce, si campa di rendita. Campa di rendita il giornalista famoso, l’ospite, il sondaggista, il redattore, il broadcaster (e il professionista, l’imprenditore, il manager ecc ecc). Nessuno ha interesse a sparigliare il mercato, innovando, producendo cose che prima non c’erano - contenuto, nella fattispecie. Hanno al contrario tutti interesse a far fruttare la rendita acquisita - la fama mediatica, nel caso televisivo - spremendola fino all’inverosimile.
Rileva parlare di Floris come metafora perché finché si continuerà a chiamare il suo "giornalismo" non ci sarà in Italia spazio per il vero giornalismo; finché si continuerà a chiamare questa tv, non ci sarà vera tv. Finché si continuerà a chiamare politica la rappresentazione teatrale che la politica dà di sé in questa tv, non ci sarà spazio per la vera politica.
Non è certamente un problema dell’editore Cairo la deriva culturale del giornalismo televisivo italiano - il suo problema semmai sono gli ascolti. Il problema che l’imprenditore Cairo però non ha interesse a sottovalutare, è che ostinandosi a produrre programmi in loop come fosse fossero soap opera, alla fine guarderemo tutti le serie tv di qualità - e non le soap spacciate per approfondimento giornalistico. A differenza di Di Martedì e Ballarò infatti dalle ottime serie tv on demand qualcosa si impara sempre.