La Grande Scommessa

Quando ho deciso di andare a vedere La grande scommessa non avevo letto il libro di Michel Lewis che lo ha ispirato, e nemmeno avevo letto le recensioni sul film. Immaginavo una trama d’azione. Qualche colpo di scena. Il crollo del mercato finanziario. I patrimoni degli incauti spazzati via e qualche astuto squalo che si arricchisce alle spalle degli altri.

Sono stato attirato al cinema dal cast. Mi aspettavo molto dagli attori e non sono rimasto deluso. La grande scommessa è un’opera che miscela in modo efficace un documentario sulla crisi finanziaria e un avvincente action movie tenuto su da artisti veramente notevoli.

Di film sulla crisi ne ho visti diversi negli ultimi anni. Ne avevo visti anche nel decennio prima che scoppiasse. E da questo mi aspettavo più o meno lo stesso storytelling. Ero convinto (e rassegnato) che, come al solito, dietro la trama avrebbe accusato i giochi e gli azzardi della grande finanza, il laissez faire che genera disastri e gli "squali cattivi" di Wall Street. Quelli che l'immaginario collettivo considera sempre i principali imputati di ogni collasso finanziario ed economico.

Alla fine, invece, mi ha sorpreso. Dà una lettura della crisi che non è il solito fallimento del mercato, né la solita colpa del turboliberismo. Getta una luce diversa sugli avvenimenti. Ci fa vedere il fallimento di una intera società e di quello stile di vita “leggero” e un po' troppo “comodo” che caratterizza i periodi decadenti della storia. Generalmente prima di un grande stravolgimento.

Anche in questo film l’epicentro della crisi sono i prodotti finanziari derivati, il ricorso sistematico alla cartolarizzazione dei mutui e la diffusione degli strumenti derivati a scopo speculativo. Si capisce subito, però, che non sono i meccanismi finanziari in sé a essere sotto accusa, bensì l’abuso sistemico che ne è stato fatto. Con responsabilità private ma anche pubbliche.

Anzitutto le banche, che non si tengono più i mutui in bilancio come facevano una volta. Non sono più interessate a ricavarne un rendimento adeguato al rischio, anche perché i rendimenti sono bassissimi, causa le politiche monetarie iper-accomodanti della FED. Così li impacchettano sistematicamente o, per meglio dire, li mescono o li insaccano (quasi come il minestrone, il salame o la mortadella) dentro prodotti finanziari strutturati e derivati, e se ne disfanno subito rivendendoli sul mercato ad altri intermediari finanziari, a investitori e risparmiatori in larga parte ignari di quello che stanno comprando.

In secondo luogo il conflitto di interessi delle agenzie di rating, che forniscono giudizi distorti sulla qualità di questi prodotti pur di non rinunciare alle commissioni pagate dalle banche per avere il top rating. Infine il fallimento delle autorità di regolazione, che sono diventate tutt’uno con le grandi banche d’affari, e con esse si scambiano funzionari e consulenti attraverso il noto sistema di sliding doors. Tutto questo nel film c'è. Ma c'è anche di più.

Ne La grande scommessa in realtà non si parla del mercato finanziario. Non nel senso del “casino giocoda ” di cui lo "sviluppo del capitale di un paese" diventa "sottoprodotto". I riflettori non sono puntati su quella metafora introdotta da Keynes e diventata facile capro espiatorio di tutte (o quasi) le crisi finanziarie e in tutte le loro trasposizioni cinematografiche. Metafora che troppo spesso viene scelta come capro espiatorio anche se la crisi ha radici altrove. Non tanto un “altrove economico”, quanto un “altrove sociale” fatto di stili di vita, di comportamenti e di illusioni collettive.

Nel film si parla di quest'ultimo “altrove”. Del paese dei balocchi che negli anni precedenti la crisi è cresciuto a dismisura attorno alle banche e al sistema finanziario. Un paese dei balocchi dove truffatori senza scrupoli, criminalità comune, ladri di galline si sono presi gioco dei più sprovveduti. Mettendosi in tasca laute commissioni per ogni operazione portata a termine, che fosse un prodotto finanziario tossico piazzato bene sul mercato, oppure un semplice mutuo fatto sottoscrivere da un nuovo cliente privo di garanzie. Uno sprovveduto in più, convinto di avere fatto un buon investimento a rischio zero, e di poterlo liquidare in qualsiasi momento guadagnandoci, grazie a una bolla immobiliare perpetua.

È veramente interessante la carrellata di personaggi che nel film incarnano questo spirito da paese dei balocchi.

Il broker che si vanta del suo palese conflitto di interessi e del modo in cui riesce a farci soldi a palate è pagato come consulente da un fondo di investimento. Dovrebbe dispensare i consigli giusti sugli acquisti di titoli. E invece che fa? Gli rifila prodotti tossici per conto di banche che gli pagano cospicue commissioni. Fa il doppio gioco e incassa due compensi in modo disonesto. Però gira in limousine.

Nell'era delle politiche monetarie accomodanti e dei tassi ai minimi storici, le commissioni sono la parte più cospicua dei guadagni in quella filiera finanziaria che parte dal mutuo immobiliare e finisce con il prodotto derivato. Sono le commissioni incassate da intermediari, broker, banche d'affari e agenzie di rating per la creazione, il rating, il prezzamento e il collocamento dei prodotti finanziari sul mercato. E, ovviamente, le commissioni intascate dagli agenti immobiliari.

Anche loro si vantano dei numerosi contratti di mutuo che fanno sottoscrivere e di quanto riescono a guadagnare estraendo la materia prima che finirà negli insaccati finanziari tossici. Nessuno controlla la qualità di questa materia prima. Le banche, ormai avvezze alla pratica di originate to distribute, sono troppo impegnate a insaccarli e a rivenderli. In fondo non gliene importa niente se sono di buona o cattiva qualità, perché tanto non resteranno a lungo nei loro bilanci (salvo poi, in alcuni casi disgraziati, rientrare dalla finestra dopo essere usciti dalla porta). Ad appiccicare il marchio di qualità fasullo ci pensano le agenzie di rating.

Da questo punto di vista il film punta i riflettori su un aspetto che in tutti questi anni è stato trascurato. Non solo nello storytelling ma anche da buona parte della letteratura specialistica. E cioè che all’ombra delle politiche accomodanti della FED e della bolla immobiliare - montata anche a seguito di scelte governative scellerate, come quelle legate ai due "colossi dai piedi d’argilla” Fannie Mae e Freddie Mac - insieme all'illusione della ricchezza perpetua è nata e si è sviluppata una enorme truffa. Una vera e propria industria dei mutui fasulli. I mutui appartenenti alla categoria sub-prime, ai quali inizialmente ci si illudeva di poter circoscrivere le responsabilità della crisi, non erano pochi. Quelli realmente privi di una qualsiasi garanzia degna di questo nome erano moltissimi.

Insomma, la crisi finanziaria raccontata ne La grande scommessa è più complessa del semplice fallimento di un casino da gioco. E le sue cause sono radicate più a fondo nella società e nella politica economica dei decenni che l’hanno preceduta. Una società e soprattutto una politica che con lo storytelling sulle colpe del turboliberismo e sugli azzardi della finanza era convinta fino a oggi di poter accusare il mercato e assolvere sé stessa.

In questo film il mercato finanziario, a tratti, sembra più vittima che carnefice. Quelli che nei film degli anni ’80 e ’90 erano i luoghi e i simboli della ricchezza e del potere, adesso sono rappresentati come l’ombra di sé stessi. E La grande scommessa descrive la capitolazione di tutti quei simboli. La sconfitta degli squali di Wall Street. Della loro avidità, della loro astuzia e, perché no, della loro etica. Quella “etica dell'avidità” esposta magistralmente da Gordon Gekko nell'omonimo film, dove era posta al servizio dell'intelligenza, della sana ricerca di opportunità, di informazioni e della volontà di arrivare prima degli altri.

Anche qua una carrellata di luoghi e personaggi diventa l’emblema di questa capitolazione, e anche del degrado dei ruoli istituzionali su cui avrebbero dovuto reggersi l'architettura della finanza e l'efficienza del mercato.

La sala contrattazioni di una grande banca d’affari fallita. Il luogo attorno al quale ruotavano gran parte delle trame e dove si decidevano i destini di tutti, adesso, compare chiaramente soltanto alla fine. Nei vecchi film avrebbe raffigurato la stanza dei bottoni. Il simbolo del potere. Ora è solo una sala da giochi per adolescenti. I terminali sembrano altrettante consolle da playstation. E quelli che occupavano le postazioni di lavoro, al di là delle competenze specifiche e del quoziente intellettivo, non dovevano essere molto diversi da un adolescente che gioca alla playstation.

E le autorità di regolazione? Una volta avrebbero fatto tremare chi violava le regole. Adesso assumono le sembianze di una giovane impiegata dell'authority, che durante un party in piscina vorrebbe sedurre e “rimorchiare” il funzionario trendy di una importante banca d’affari. Evidentemente punta a farsi assumere presso la stessa banca con una lauta remunerazione. È sicura che ci riuscirà. E, a guardarla, non le si può dar torto. Una rappresentazione decisamente più pratica e terra terra, ma sicuramente efficace, di quel sistema di sliding doors che ha garantito la commistione tra istituzioni pubbliche e interessi privati per lungo tempo prima dello scoppio della crisi

E poi le agenzie di rating, incarnate da un'attempata signora. Il suo ufficio mi è sembrato un tantino sciatto, e mi ha fatto pensare al ruolo burocratico che hanno svolto le agenzie in tutta questa storia. È lei a spiegare che i top rating non sono il risultato di oneste e sofisticate analisi. I top rating vengono semplicemente venduti a richiesta e dietro lauto compenso. Ed è inutile rifiutarsi di venderli, perché tanto i clienti si rivolgono all’agenzia concorrente che ha l’ufficio proprio dall’altra parte della strada, e vanno a comprarli là. Quindi è meglio venderglieli (e vendersi) e intascare la commissione.

Solo i quattro protagonisti vengono raffigurati in senso positivo. Indenni da tutto questo degrado. Ciascuno con le sue stranezze, le sue fisime, i suoi problemi esistenziali, il suo passato e il suo presente da squalo. Però indenni dal degrado che ha investito una fetta intera di società. In un film di qualche decennio fa sarebbero stati, ciascuno a suo modo, dei Gordon Gekko furbi, opportunisti e senza scrupoli. Oggi assumono un ruolo analogo a quello degli eroi de “La sporca dozzina”. Hanno il coraggio di scommettere sulla caduta del sistema marcio e fanno la "buona battaglia”. Puntano tutto su una gigantesca vendita allo scoperto: The Big Short, appunto, è il titolo originale.

Il film offre una prospettiva diversa sulla crisi finanziaria. Quella di una illusione collettiva nella quale è rimasto irretito non solo l’establishment e gli attori del mercato, ma una fetta intera di società americana, complici le scelte pubbliche della politica economica. E offre la prospettiva della truffa sistemica perpetrata all’ombra dell’euforia finanziaria. Truffa che probabilmente non è mai cessata del tutto.

Se vai a guardare La grande scommessa ti rendi conto che lo storytelling della crisi come fallimento del mercato e dei meccanismi della finanza probabilmente non è adeguato a descrivere quello che è accaduto e che sta accadendo. Che proprio mentre tanti tromboni in questi anni ci raccontavano la crisi come un fallimento del mercato cattivo, tanti furbi privati e pubblici hanno continuato a scaricare su investitori, risparmiatori e contribuenti i rischi di scelte scellerate fatte nel passato. E che tra le vittime potresti esserci stato anche tu.

Magari non hai comprato un MBO, un CDO o un CDS, però la tua amica banca ti ha venduto per “assolutamente sicura” una bella obbligazione subordinata. E tu non ti sei reso conto che in quel momento stava condividendo con te (per usare un eufemismo) una parte dei suoi rischi pregressi. Se vai a guardare La grande scommessa, difficilmente entrerai di nuovo in banca con lo stesso timore riverenziale e la stessa fiducia che riponi nel tuo medico di famiglia.