cover battista

L'ultimo libro di Pierluigi Battista, “Mio padre era fascista” (Mondadori, 161 pagg, 16,50 euro) è arrivato in libreria, e lo recensisco qui per due motivi: il padre fascista di Battista è persona assai elogiata a casa mia, perché diede aiuto in complicati frangenti giudiziari, quindi gli devo qualcosa pure io. Poi, mi sono sempre chiesta come questi figli di fascisti diventati comunisti e gruppettari potessero gridare in piazza cose truci tipo “uccidere un fascista non è reato” senza immaginarsi loro padre steso per terra. C'è poi un terzo motivo, più generale, ed è il seguente: nella lagna delle autobiografie italiane, di solito improntate all'auto-giustificazione e all'autocritica col “ma”, questo libro è un'eccezione perché è coraggioso e sincero fino in fondo.

Il padre in questione è l'avvocato Vittorio Battista, reduce della Rsi e prigioniero a Coltano, il campo dei non-cooperatori, quello in cui fu recluso in una gabbia il poeta Ezra Pound prima di finire in un manicomio criminale americano. E la molla narrativa della storia è proprio un diario dei giorni di Coltano, che Pierluigi Battista ritrova e legge solo dopo la morte del papà. Lì, negli sputi delle donne ai soldati prigionieri che sfilano morti di sete, chiedendo inutilmente acqua, c'è la chiave della “doppia vita” dell'avvocato Vittorio: impeccabile e stimato professionista nella sua esistenza pubblica, esule in patria nella sua dimensione politica. E sempre leggendo quelle pagine, con il senno del poi, Pierluigi riesce a ricostruire il motivo vero del suo “no” giovanile a quel padre scomodissimo: «Non volevo essere il reduce lacero e sconfitto di una guerra che non avevo mai combattuto», scrive. È per questo che, appena quindicenne, se ne era andato verso «la borghesia giusta», quella «sempre al caldo, lontana dai pericoli dell'esclusione, accudita e protetta dai giornali».

Nella storia del braccio di ferro politico-personale che accompagna la vita della famiglia Battista ci sono momenti atroci ma anche divertenti e inaspettati. Atroci: quando Pigi, reduce da una manifestazione in favore di Achille Lollo (l'imputato del rogo e della morte dei fratelli Mattei, 22 e 10 anni nel sobborgo proletario di Primavalle) si trova davanti alla gelida ira del papà, avvocato della famiglia Mattei, che gli mette sotto il naso gli atti ancora segreti dell'inchiesta, e sarà uno choc fatale e pieno di conseguenze. Divertenti: Pigi alla Balduina, circondato da un gruppo di giovani fascisti e già rassegnato al pestaggio, che viene incomprensibilmente risparmiato. “Ringrazia tuo padre”, gli dice il più grosso del gruppo, un gigante soprannominato Roccia che avrebbe potuto stritolarlo in due minuti. Inaspettati: quando Vittorio, anticomunista di ferro, impallidisce davanti alle immagini dell'esecuzione del dittatore comunista Ceausescu e di sua moglie, e mormora “così non si fa”, e stupisce il figlio che non conosce (immagino) il segno permanente lasciato nelle coscienze dei fascisti di quel tipo da Piazzale Loreto e il conseguente disprezzo per ogni forma di esecuzione sommaria, comprese quelle dei nemici.

L'epilogo del libro – Vittorio è ormai morto e Pierluigi è a Fiuggi per seguire da giornalista il congresso di passaggio tra il Msi e An – è sorprendente e insospettabile. Non ne parlerò perché sarebbe come rivelare la fine di un romanzo. E c'è in quella conclusione, in quella vicenda riletta così tanti anni dopo e col senno del poi, una sorta di morale alla quale non può sfuggire nessuna parte, neppure noi, quasi coetanei di Pigi, che militammo a destra. Anche noi come lui giudicammo il mondo dei Vittorio Battista reducistico, chiuso nelle sue sconfitte, politicamente improduttivo, e ci demmo molto fa fare per archiviarlo, superarlo, andare altrove, «uscire dal tunnel del fascismo» come si diceva nei raduni giovanili molto prima di Fiuggi. Anche noi non volevamo essere «reduci laceri e sconfitti» di una guerra mai combattuta e se ascoltavamo volentieri le storie della generazione precedente – la guerra, la prigionia, il cercar la bella morte – ne vedevamo l'impolicità, il limite, e ci sentivamo soffocati dal fumo del rancore che si portavano dietro. E però a quella generazione di signori impeccabili, quelli che vedevi solo ai comizi di Almirante, benvestiti, davanti al bar Rosati con le loro mogli ben pettinate, dovremmo tutti un riconoscimento postumo. Tutti: post fascisti, ex comunisti, liberali, democristiani. Tutti – e non solo i loro figli che li hanno conosciuti da vicino – dovremmo riconnetterli alla vicenda nazionale nel ruolo silenzioso che hanno avuto, non per concedergli l'onore delle armi ma per salvare le nostre stesse biografie dall'accusa, pessima, di aver rinnegato i padri per accomodarci in salotti più accoglienti dei loro.

La vicenda di Vittorio e Pierluigi, insomma, non è solo il racconto psicologico di uno scontro e di una riconciliazione domestica, ma storia che interroga altre storie di questa Italia con poca memoria. Pone domande, obbliga a riflessioni fastidiose la generazione dei 50-60enni, che attraverso quelle traversie è passata e ne conosce l'impatto e le conseguenze. Speriamo che succeda, perché mai come nel caso di questo libro “il personale è politico”, come si diceva una volta, e lo si dovrebbe riconoscere pure se risulta scomodo.