MezzogiornoVanGogh

Al di là degli aspetti inevitabilmente comici della vicenda, l’ultima idea del Governo penta-leghista - assegnare in concessione ventennale degli appezzamenti di terra incolti a nuclei familiari che mettono al mondo il terzo figlio nel prossimo triennio - è rivelatrice di un paradosso di cui la nostra cultura ex-contadina è permeata. 

La terra è un vissuto solido e reale delle nostre vite e delle nostre famiglie. Tutti, o quasi, abbiamo qualcuno che viveva della terra, o sulla terra, non più in là di un paio di generazioni fa: il nonno contadino, il podere, l’orto, la passata di pomodori, il maiale da ammazzare a Sant’Antonio, il pezzetto di terra ereditato al paese e di cui ora non sappiamo cosa fare, se non fantasticare di un romantico ritorno alle origini quando i figli saranno grandi e le nostre articolazioni ormai talmente arrugginite da impedirci anche di svasare i gerani.

I nostri nonni hanno abbandonato un’agricoltura che (grazie al cielo) non esiste più, ma ne hanno tramandato un ricordo talmente vivo e talmente recente da averci trasmesso l’idea che l’agricoltura sia ancora quella lì, quella di sessanta anni fa, quella che loro hanno abbandonato inseguendo le luci della città e le sirene del progresso. Luci e sirene dalle quali sono stati illusi e delusi, e noi oggi, figli di un’Italia postindustriale alla continua ricerca di un minimo sindacale di concretezza per le nostre esistenze precarie e ansiogene, abbiamo l’opportunità di riscattare il loro fallimento esistenziale (il loro, non il nostro) tornando alla terra: aprire un giorno un agriturismo, e intanto andare in agriturismo, comprare biologico, tipico, naturale, a km zero, ai saloni del gusto o magari direttamente “dal contadino”. In fondo cosa costa sognare? Solo il prezzo di un quadratino di stoffa a scacchi sul coperchio di un barattolo di marmellata, o di un portasciugamani ricavato da una vecchia scala a pioli, appoggiato al muro del bagno accanto al bidet.

Certo, loro, i nostri nonni, in campagna facevano la fame, o qualcosa di molto simile, e oggi a compensare i nostri esili bilanci 4.0 vengono in soccorso le loro pensioni accumulate in fabbrica e in città, non certo il mezz’ettaro di vigna o di uliveto ancora da qualche parte lì, nella fattoria dei ricordi. Ma vuoi mettere una serata attorno al fuoco acceso, svegliarsi presto e sentire il fresco della rugiada, l’odore della stalla e il peso della zappa, camminare sull’erba, sporcarsi le mani di terra, commuoversi di fronte alla semina o al raccolto? Un lavoro duro, certo, ma non è accattivante proprio per questo? Mica preferirai l’ufficio e la metropolitana intasata?

Ecco, il dibattito nato attorno alla proposta di assegnare terra da dissodare in cambio di figli alla patria, e soprattutto la proposta stessa, sono il prodotto naturale di questa clamorosa dispercezione della realtà. L’idea sembra ispirata ai manifesti della propaganda fascista del primo dopoguerra perché è proprio a quell’epoca che si ispira la nostra idea di agricoltura: se la percezione è quella, l’impianto ideologico si adegua e la retorica anche.

Perché siamo tutti convinti, in fondo che le campagne italiane vadano “ripopolate”, e che siano piene di terreni abbandonati che aspettano solo di essere riportati a nuova vita. D’altronde, con tutti questi nonni che se ne sono andati dalle campagne e dai paeselli, l’esito non può essere che questo: campagne spopolate e terreni abbandonati. E allora, se i terreni sono abbandonati e se le campagne sono spopolate, perché non le ripopoliamo?

Banalmente, perché le campagne non sono spopolate, e di terreni abbandonati non vi è traccia. La dimensione media dell’azienda agricola italiana è di meno di otto ettari. In Francia (non in Australia o nel Midwest americano) è di 53 ettari, 56 in Germania, 65 in Danimarca, 152 nella Repubblica Ceca. Non proprio la dimensione media aziendale di un sistema agricolo da “ripopolare”. Anzi, uno dei limiti cronici dell’agricoltura italiana è proprio l’eccessiva frammentazione fondiaria, il nanismo delle aziende che impedisce loro di essere competitive sul mercato e le rende strutturalmente deboli nei confronti degli altri anelli della filiera agroalimentare, a cominciare dalla GDO.

E la terra coltivabile viene già coltivata tutta, come è ovvio che sia, anche se attraversando l’Italia in treno andando in vacanza possiamo confondere un pascolo o un prato stabile per un incolto, oppure se non riusciamo a farci una ragione del motivo per cui certe pietraie tanto suggestive non vengano coltivate a carciofi o a tulipani. Sì, non tutta la terra è coltivabile, e l’Italia, a causa del suo profilo orografico montuoso, è piena di terreni che non sono destinabili all’attività agricola. Fermi tutti, vuoi vedere che le terre demaniali incolte e abbandonate, oggetto del provvedimento contenuto nel testo della Legge di Bilancio diffuso l’altroieri, sono incolte e abbandonate per una buona ragione?

Di terreni di proprietà pubblica da mettere in un modo o in un altro sul mercato si parla da sempre. Se ne parlava anche nella legge di stabilità del 2012, che assegnava al Mipaaf il compito di farne un censimento per individuare quelli da mettere sul mercato, all’asta. Come sia andata a finire non si sa, ma se oggi se ne riparla, se si ricomincia daccapo, è segno che siamo sempre fermi lì, chissà perché. Perché sui terreni demaniali possono ricadere diritti di uso civico, come il pascolo o il taglio del legname, perché molti di questi sono già dati in affitto da generazioni, perché spesso sono stati usati dalle pubbliche amministrazioni come garanzia per mutui e prestiti a lunga scadenza, e quindi non possono essere alienati. O perché, banalmente, non sono coltivabili, sono terreni marginali, agronomicamente inconsistenti, buoni a coltivare nulla se non le nostre illusioni. 

E allora sogniamo pure, sognare fa bene, ché tanto è gratis come tutte le illusioni smerciate nella Manovra del Popolo del Governo del Cambiamento. Torniamo a immaginare di strappare le terre ai latifondisti, in nome della riforma agraria equo-solidale e sovranista. Aspettiamo fiduciosi lo spot pubblicitario con Di Maio e Centinaio in visita alla famiglia felice, e ai loro tre bambini, miracolati dall’assegnazione delle terre, mentre inseguono festosi gli anatroccoli nell’aia, a testimoniare il successo dell'iniziativa. Podere al popolo, compagni!

@giordanomasini