La medicina difensiva non è solo una brutta abitudine legata all’alto livello di litigiosità, per cause mediche, nelle aule di tribunale, ma quasi un contesto epistemologico, entro il quale sollevare medico e paziente dall’inevitabile incertezza legata agli esiti della pratica medica.

Ovadia stetoscopio

«La medicina difensiva non ha solo effetti negativi: molti medici prescrivono procedure più aggressive, di quelle consigliate dai panel di esperti, per ridurre il livello di incertezza proprio e del paziente, e questo può essere considerato un effetto benefico dell’eccesso diagnostico. Per molti autori, la medicina difensiva non è altro che una scusa per atti non giustificati che i medici compierebbero indipendentemente dal tasso di litigiosità dei pazienti.» Così si esprimeva, nel 1994, agli albori della discussione sugli errori in medicina e sulle strategie difensive per evitare di essere perseguiti dai pazienti, un documento ufficiale dell’Ufficio per le valutazioni tecnologiche del Congresso degli Stati Uniti. La medicina difensiva non è solo una brutta abitudine legata all’alto livello di litigiosità per cause mediche nelle aule di tribunale, quindi, ma quasi un contesto epistemologico, entro il quale sollevare medico e paziente dall’inevitabile incertezza legata agli esiti della pratica medica.

Uno studio condotto su 900 medici della Pennsylvania, per esempio, dimostra che nel 92 per cento dei casi i test diagnostici sono prescritti solo per confermare una diagnosi di cui il medico è già abbastanza sicuro, ma non al 100 per cento. E quel margine di incertezza, che i pazienti di altri tempi (e di conseguenza i loro curanti) erano abituati a considerare come inevitabile, sembra oggi, grazie al progresso tecnologico, semplicemente intollerabile, anche quando un eventuale errore non ha conseguenze, se non un prolungamento nel tempo di malattia. Non a caso il sintomo che provoca il maggior utilizzo di misure diagnostiche inutili è il dolore: davanti alla sofferenza, sia il medico sia il malato diventano più «impazienti» (e non senza ragione). Il ricorso a un antidolorifico nell’attesa di chiarire il quadro diagnostico accresce l’ansia del medico, secondo uno studio canadese pubblicato sulla rivista «Plos», perché “maschera” l’indizio in base al quale il curante può monitorare la gravità della situazione.

A riprova del fatto che non è solamente il timore degli avvocati a spingere verso eccessi prescrittivi, c’è l’esperienza condotta in Texas, Georgia e Carolina del Sud: tre Stati dove i medici di pronto soccorso sono stati protetti per legge dalle cause per malasanità. Esaminando 3,8 milioni di interventi in emergenza, gli esperti hanno notato che non cambia affatto il numero di risonanze magnetiche o di TC richieste negli Stati con protezione legale dei medici.

Un’indagine condotta, sempre negli Stati Uniti, nel 2012, su circa 1.600 medici, ha cercato di classificare le 10 cause più comuni di medicina difensiva (praticata dal 74 per cento del campione intervistato): nel 78 per cento dei casi la ragione è la paura di finire in tribunale, ma non è la causa il vero problema quanto il suo impatto psicologico (oltre la metà dei medici afferma di aver subito o visto subire da un collega un processo per malpractice e di aver temuto per la propria/altrui reputazione, di aver percepito l’alto livello di stress nel doversi difendere e di avere il timore di subire gravi rovesci finanziari). Per il 61 per cento degli interpellati, però, la medicina difensiva è il nuovo “standard di cura”, dal quale non è possibile discostarsi senza apparire in difetto; per il 59 per cento è una risposta alle richieste di pazienti o familiari di «fare tutto il possibile» e per il 53 per cento è una conseguenza del livello di perfezione che i pazienti si aspettano dal proprio medico.

I medici coinvolti in un’accusa di malasanità (reale o pretestuosa) sono anche quelli che più facilmente fanno della medicina difensiva il loro modo di agire quotidiano, anche a causa delle sequele psicologiche legate all’esperienza processuale. Un’indagine su 7.926 medici britannici dimostra che il 17 per cento circa di quelli con una causa recente, o che sono stati oggetto di più di una causa nella propria carriera, soffre di depressione, da moderata a grave. Il 15 per cento riferisce sintomi ansiosi da moderati a gravi, contro il 7 per cento circa dei medici che non sono, né sono mai stati, oggetto di cause. Il livello di stress aumenta, ovviamente, con la gravità dell’accusa: medici che rischiano la radiazione dall’albo o la sospensione prolungata dall’attività professionale mostrano un rischio suicidario più che raddoppiato rispetto ai colleghi.

Quel che più dovrebbe interessare i cittadini, però, è il fatto che questi medici sono portati a strafare sul piano della diagnostica, esponendo i pazienti a rischi legati alle procedure stesse e agli errori diagnostici, come i risultati falsamente positivi, che aumentano proporzionalmente al numero di esami eseguiti. D’altra parte i medici stressati tendono a evitare interventi potenzialmente utili, talvolta persino salvavita, se hanno un elevato profilo di rischio. Il timore di finire in tribunale, quindi, crea una classe di medici paurosa, potenzialmente meno efficiente sul piano delle cure e alimenta una sorta di circolo vizioso. Il fenomeno si nota in particolare in settori, come la pediatria e la ginecologia, in cui l’eventualità di un esito infausto non è percezione comune: oggi è considerato inaccettabile morire di parto o in età infantile, specie se per una banale operazione o infezione. La realtà è diversa, e la mortalità materno-infantile è ben lontana dall’esser stata azzerata. Tra percezione comune e crudi dati statistici vi sono differenze che spiegano l’alto numero di cause che colpiscono il settore dell’ostetricia, anche se è possibile morire di parto in assenza di un vero e proprio errore medico: sono circa 50 ogni anno i casi in Italia, di cui solo 3 o 4 considerati evitabili dalle statistiche fornite dall’Istituto Superiore di Sanità.

Curami come cureresti te stesso

Un gruppo di ricercatori spagnoli ha condotto uno studio, nel 2010, su circa 80 medici di base (per metà uomini e per metà donne, con età media di 52 anni e circa 15 anni in media di esperienza professionale) per verificare se le decisioni che prendono per se stessi sono analoghe a quelle che prendono per i propri pazienti. Ognuno di loro ha dovuto compilare un questionario con scelte mediche alternative (trattamenti conservativi o più aggressivi).

I risultati? I medici scelgono per i propri pazienti cure molto più conservative di quelle che scelgono per se stessi. Interrogati sul perché di questo atteggiamento, nel 93 per cento dei casi citano il timore di ripercussioni legali. La raccomandazione degli autori è che i pazienti chiedano al proprio medico «lei cosa farebbe per se stesso in questa situazione?», in modo da poter valutare se il consiglio ottenuto in prima istanza sia troppo prudente.

Secondo alcuni sociologi, l’aumento della litigiosità in ambito medico è anche un effetto collaterale della maggiore consapevolezza che i pazienti hanno dei propri diritti e della facilità di accesso alle informazioni. Eppure l’empowerment dei pazienti (cioè la necessità di renderli sempre più autonomi e capaci di decidere da sé in merito alle cure desiderate) è uno dei capisaldi della medicina moderna e della moderna bioetica: si è passati da una visione paternalistica della medicina, in cui l’esperto (il medico) decideva per l’inesperto (il paziente), alla medicina come pratica condivisa. Il medico è un esperto dal punto di vista tecnico, ma il paziente è il maggior esperto di se stesso, l’unico che sa davvero quali obiettivi vuole perseguire e con quali mezzi.

Una recentissima indagine condotta da «Medscape», uno dei siti di informazione professionale più autorevoli e diffusi a livello mondiale, conferma la relazione tra accesso alle informazioni (talvolta senza un filtro in grado di contestualizzarle) da parte dei malati e tendenza a portare il proprio medico in tribunale in caso di esiti indesiderati o infausti. Eppure per la maggior parte dei 1.000 medici intervistati e per la stragrande maggioranza dei 1.000 infermieri che hanno risposto a un questionario ad hoc, l’empowerment del paziente è un bene: ne è convinto il 54 per cento dei dottori e l’82 per cento del personale infermieristico. Il 39 per cento dei medici afferma che le ricerche condotte dal malato prima del consulto hanno reso la decisione in merito alla cura più complessa, ma per il 24 per cento l’hanno resa più semplice. Per la maggior parte degli operatori sanitari, un paziente empowered è una persona che chiede informazioni sui pro e contro e sugli effetti collaterali di esami e farmaci; per l’89 per cento dei comuni cittadini, invece, il vero potere è portare al medico informazioni su cure ed esami da discutere insieme e, soprattutto, avere un ruolo attivo nel decidere che cosa è meglio fare. È nella sottile ma fondamentale differenza tra chiedere informazioni e voler decidere per sé che risiede, secondo gli autori dell’indagine, una delle cause di insoddisfazione e uno dei fattori che portano il paziente a denunciare il proprio medico.

Sistemi giudiziari incompetenti

A volte la medicina difensiva gioca sul non fare, sul ritardare un intervento per paura che possa andare male. In questo caso i medici sono timorosi di dover spiegare scelte audaci a un sistema giudiziario che non è preparato a considerare il loro comportamento alla luce delle prove scientifiche. Lo dimostra uno studio statunitense condotto dalla National Academy of Medicine su medici che hanno subito un processo e che lamentano la scarsa attendibilità delle perizie sulle quali i giudici devono decidere, talvolta legate anche alla difficoltà di stabilire, in una scienza non esatta come la medicina, qual è «la cosa giusta» che andava fatta per quel determinato paziente. Anche leggi come la Gelli-Bianco, introdotta in Italia nel marzo dello scorso anno e che forniscono standard di riferimento basati sulle linee guida, non sempre reggono alla prova processuale.

Ha fatto storia (ed è stato pubblicato sulla nota rivista medica «JAMA») un caso accaduto nel 2004 negli Stati Uniti, dove vigeva una legge analoga a quella italiana. Un paziente ha fatto causa al proprio medico che si era rifiutato di prescrivergli il controllo del PSA, un test all’epoca molto reclamizzato per la diagnosi precoce del tumore prostatico, ma in realtà già noto per la scarsa specificità. L’esame era considerato di routine dalla maggior parte dei medici, anche se le linee guida delle diverse società scientifiche lo sconsigliavano. Il paziente in questione sviluppò un tumore prostatico aggressivo, diagnosticato grazie a un esame del PSA prescritto da un secondo specialista, e il primo medico fu condannato a risarcirlo per la mancata diagnosi, sulla base del fatto che le linee guida suggerivano un comportamento, ma la quasi totalità dei medici, come fu facile dimostrare durante il dibattimento, ne seguiva uno diametralmente opposto.

Nel 2015 un gruppo di medici italiani ha pubblicato sulla rivista «Multidisciplinary Respiratory Medicine» un articolo che vuole fare il punto sulle cause di malpractice in Italia alla luce dell’aumento innegabile di pratiche di medicina difensiva. Il lavoro si basa soprattutto su dati provenienti da documenti pubblici, e punta il dito su un ulteriore attore: il mondo dei media, colpevole di raccontare una medicina fatta tutta di successi in cui la morte non è mai un’opzione contemplabile. «Nessun decesso avviene senza che vi sia un’accusa esplicita o un sospetto implicito riguardo al medico, nel quale viene posta una fiducia illimitata e acritica, praticamente una presunzione di onnipotenza», scrivono gli autori che lavorano all’Università del Salento. «La medicina, però, non è onnipotente e, così come ogni scienza sperimentale, è inesatta e procede per tentativi ed errori.» I media, secondo l’analisi dei medici italiani, sono colpevoli anche di raccontare storie di eccellenza in medicina senza specificare che certe competenze, e certe attrezzature, non sono distribuite in modo uniforme su tutto il territorio nazionale, dando al paziente l’illusione che la migliore delle cure possibili, in realtà appannaggio di pochi fortunati, sia un diritto di tutti. Gli autori non fanno cenno ai numerosi studi che dimostrano però come la comunicazione della medicina non dipenda dai media, ma dalla medicina stessa, che ama dare di sé la migliore immagine possibile, tralasciando di evidenziare le forti diseguaglianze che affliggono il sistema sanitario.

La soluzione per contenere il ricorso alla medicina difensiva e limitare le cause per malasanità non può agire su una sola delle cause, come dimostrano alcune interessanti simulazioni basate sulla teoria dei giochi, condotte da un gruppo di economisti dell’Università di Sassari e pubblicate su «Plos One». È un problema di sistema in cui le “prede” (i medici oggetto di cause) sono in equilibrio con i “predatori” (i pazienti a elevato tasso di litigiosità). Solo agendo su tutti gli elementi del sistema (l’educazione dei pazienti, le competenze dei medici in materia di comunicazione, la formazione professionale, l’organizzazione sanitaria e la distribuzione delle risorse, il sistema giudiziario, i media e così via) si può pensare di modificare il comportamento dei dottori e ridurre il ricorso ai tribunali ai casi (che pure ci sono) in cui sono stati commessi errori gravi, dovuti a incompetenza o trascuratezza.