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Il Regolamento UE sul “ripristino della natura”, entrato ufficialmente in vigore il 18 agosto 2024, rappresenta uno degli sviluppi più significativi nel panorama delle politiche ambientali europee. Questa normativa ambiziosa mira a ricostituire almeno il 20% delle superfici terrestri e marine dell'UE entro il 2030 e tutti gli ecosistemi degradati entro il 2050. Tuttavia, nonostante l'approvazione e l'entrata in vigore del regolamento, esso è già al centro di un acceso dibattito.

Infatti, nonostante sia stata presentata come una risposta necessaria alla presunta crisi ecologica e climatica, sorgono diverse questioni in ordine alla nuova iniziativa europea che meritano di essere approfondite. Non solo riguardo alle implicazioni economiche e politiche della legge, ma anche rispetto alla narrazione dominante della crisi ambientale stessa.

La base su cui si fonda il Regolamento è abbastanza nota: è rappresentata dall'idea di una crisi ambientale senza precedenti, che richiederebbe interventi urgenti e radicali. Senonché, è legittimo chiedersi se siffatta narrativa sia completamente fondata o se non sia invece esagerata per giustificare un'espansione del controllo statale e una maggiore centralizzazione delle decisioni a livello europeo.

Guardando alla storia, è dato rilevare che ci sono state molte previsioni catastrofiche legate all'ambiente che non si sono mai concretizzate. Negli anni '70, per esempio, si parlava di un'imminente era glaciale, laddove oggi la paura principale sembrerebbe essere quella del riscaldamento globale. L'evoluzione della scienza e della tecnologia ha spesso smentito le previsioni più allarmistiche, e molti problemi ambientali che sembravano insormontabili sono stati risolti attraverso l'innovazione e l'adattamento.

Uno degli studiosi più influenti nel mettere in discussione la narrativa catastrofista è stato l'economista Julian Simon. Lo stesso ha radicalmente ribaltato la concezione comune delle "risorse naturali", sostenendo che esse non esistono in natura in quanto tali. A suo avviso, è l'ingegno umano che trasforma le materie prime in risorse utili. Le risorse, sottolineava, non sono finite e limitate, ma piuttosto infinite, in quanto il progresso tecnologico e la creatività umana ne accrescono continuamente la disponibilità e l'utilizzo: «le risorse naturali – ha scritto in particolare - sono create dall'intelletto umano; ciò che consideriamo come 'scarse' diventano abbondanti man mano che impariamo a sfruttarle meglio».

È questa, indiscutibilmente, una prospettiva che rovescia la prospettazione ambientale dominante, suggerendo che l'umanità non è destinata a esaurire le risorse del pianeta, ma anzi ha la capacità di espandere e migliorare continuamente la propria base delle stesse attraverso l'innovazione. Simon sottolineava che l'uomo, con la sua capacità di innovare e adattarsi, è la "risorsa ultima", il fattore chiave per superare ogni limite percepito imposto dalla natura.
La sua visione contrasta, ovviamente, con l'allarmismo di molti ambientalisti, che vedono nella crescita economica e nell'uso delle risorse naturali una minaccia esistenziale. Al contrario, il medesimo Simon e molti altri economisti liberali vedono nella libertà economica e nel libero mercato il motore principale del progresso e della sostenibilità a lungo termine. In questo contesto, la descrizione della crisi ambientale può apparire come uno strumento per giustificare un controllo sempre più stretto delle risorse e delle economie da parte di governi e istituzioni sovranazionali, piuttosto che un fenomeno basato su una reale scarsità.

A parte ciò, vi è anche da considerare che quand’anche si ammettesse la pretesa crisi ambientale, residuerebbero ugualmente forti dubbi su come il Regolamento Ue dovrebbe affrontare tale presunta emergenza. Le disposizioni, infatti, pongono vincoli significativi agli Stati membri, alle imprese e ai cittadini, sollevando preoccupazioni su vari fronti.
Uno degli aspetti più controversi del provvedimento è la centralizzazione del potere decisionale a Bruxelles. In un’Unione Europea che si professa democratica, imporre norme stringenti dall’alto potrebbe essere percepito come un attacco alla sovranità degli Stati membri. Le singole nazioni sono meglio posizionate per conoscere e gestire le loro specifiche problematiche ambientali, e l'imposizione di standard uniformi potrebbe rivelarsi controproducente.

Albert Epstein, economista noto per le sue critiche alle regolamentazioni ambientali e per la difesa del libero mercato come soluzione ai problemi ecologici, ha osservato che «la standardizzazione eccessiva è il nemico della resilienza e dell'innovazione locale». E la centralizzazione rischia di amplificare la burocrazia, rallentando l'attuazione delle politiche e aumentando i costi per i cittadini.

Vi è anche da rilevare in proposito che il regolamento richiede ingenti investimenti per il ripristino degli ecosistemi, ma non chiarisce adeguatamente come questi costi verranno sostenuti. Anche se l'UE promette supporto finanziario, è probabile che gran parte del peso ricadrà sui contribuenti e sulle piccole e medie imprese, già messe a dura prova da regolamentazioni sempre più onerose. Gli agricoltori, in particolare, potrebbero essere costretti a rinunciare a terre produttive per favorire il ripristino di habitat naturali, con conseguenze dirette sul loro reddito e sulla sicurezza alimentare dell'Europa. In un momento di incertezza economica globale, politiche che penalizzano la produttività agricola e industriale potrebbero avere effetti disastrosi.

Vi è infine il rischio che l'enfasi sulla conformità a norme europee dettagliate possa creare un ambiente di inerzia burocratica, in cui l'innovazione e le soluzioni locali vengono soffocate. Le normative ambientali dovrebbero incentivare la creatività e la ricerca di soluzioni sostenibili, piuttosto che imporre una serie di obblighi rigidi che lasciano poco spazio all'iniziativa individuale.

Aggiungasi a quanto sopra che, le previsioni più pessimistiche sull'ambiente spesso non tengono conto della capacità della natura di rigenerarsi e adattarsi. Al riguardo non è inutile richiamare che quanto ha Patrick Moore, cofondatore di Greenpeace e successivamente critico dell'ambientalismo estremo, secondo cui: «Il movimento ambientalista ha abbandonato la scienza e la logica a favore della paura e della propaganda. Gli allarmisti ambientali fanno appello a un'immagine distorta della realtà per manipolare l'opinione pubblica». Moore ha sottolineato che molte delle minacce ambientali proclamate non sono supportate da prove scientifiche solide, ma sono piuttosto esagerazioni volte a promuovere un'agenda politica specifica.

Klaus Schwab, a sua volta, nel libro "The Great Reset" ha trattato l’idea di una trasformazione radicale dell'economia globale, che ha molto in comune con l'approccio di Bruxelles. Ha comunque avvertito del pericolo di una "sovraregolamentazione" che potrebbe soffocare le economie nazionali e limitare le libertà individuali. Un appello alla prudenza, quindi, è d'obbligo quando si tratta di attuare politiche di così vasta portata.

Sempre in argomento, Victor Klaus, economista e già Presidente della Repubblica Ceca, ha scritto: «Il vero pericolo è la strumentalizzazione della crisi ambientale per giustificare politiche che restringono le libertà e impongono costi insostenibili. Dobbiamo sempre chiederci chi beneficia realmente da queste misure». La sua osservazione sottolinea il rischio che la crisi ambientale venga utilizzata come pretesto per espandere il controllo statale e limitare le scelte individuali.

In definitiva può sostenersi, Il Regolamento UE di cui trattasi, sebbene possa mostrare profili da attenzionare, esprime in ogni caso l’esempio di come l'approccio interventistico, burocratico e centralizzato possa rivelarsi problematico. Qualora esistesse realmente una la necessità di proteggere l'ambiente, non è revocabile in dubbio che l’obiettivo dovrebbe essere perseguito in modo che rispetti la libertà politica ed economica, la sovranità nazionale e la capacità dei cittadini di prendere decisioni informate.

In sostanza, invece di imporre regole rigide dall'alto, l'UE dovrebbe piuttosto limitare il suo raggio d’azione e promuovere un approccio più decentralizzato, basato sul mercato e la cooperazione volontaria, che incentivi le pratiche sostenibili attraverso la concorrenza, l'innovazione e la responsabilità individuale. Lasciando più spazio alle soluzioni locali e private, si potrebbero ottenere risultati migliori senza sacrificare la libertà e il benessere economico. Solo così si potrà garantire un futuro in cui la prosperità e la libertà vadano di pari passo con la conservazione dell’ambiente.