vino grande

Il mondo del vino - produttori da un lato, consumatori dall'altro, in mezzo operatori del settore enogastronomico e tutti coloro che commentano a vario titolo (sommelier, degustatori, giornalisti, critici) orientando opinioni, posizioni, e quindi scelte di consumo e mercati - da ormai qualche anno a questa parte ha iniziato a qualificare i prodotti - i vini - non tanto in base alle loro caratteristiche fisico-chimiche e organolettiche (inerenti cioè le sensazioni di gusto e olfatto), bensì in base a specifici aspetti delle scelte e dei processi produttivi, agricoli ed enologici, "eletti" a criteri di determinazione delle caratteristiche e della qualità.

Alcuni esempi concreti. Ciò che sempre più sembra interessare e far discutere gli appassionati di questa bevanda sono aspetti come: le modalità di fermentazione, se "spontanea" o con lieviti aggiunti (e se la seconda, di che tipo: selezionati o autoctoni?); le scelte di macerazione, di estrazione, la filtratura, e naturalmente l'impiego dell'anidride solforosa (meglio evitare!). Qualcuno si appassiona alle modalità di invecchiamento (ultimamente, a molti piace l’anfora, e non se ne comprende il motivo tecnico: come esibire una passione per le proprietà di ossigenazione e isolamento termico della terracotta).

Alcuni invece parlano di tappi, con un filone specifico di cultori dei tappi a vite, specie per i vini bianchi. C'è chi, passando ad argomenti agricoli, interroga il produttore-viticoltore sulle sue scelte in materia di cultivar utilizzati (le varietà di vitigni: ma insomma, perché “internazionali”, e non autoctoni e in purezza?), di portainnesto (meglio se piede franco, e pazienza la peronospera), e ovviamente di strategie di difesa dai vari patogeni del vigneto: in questo caso ciò che conta è appurare se "naturali" vs "di sintesi" (distinzione altresì poco significativa sul piano scientifico e applicativo, dove si valutano gli effetti, non le origini delle molecole), irrilevante capire come effettivamente funzionano, le loro modalità di applicazione e i loro pro e contro specifici, nelle varie situazioni e casistiche "cliniche" in campo.

Occorre analizzare le motivazioni e lo sfondo cognitivo di queste domande. È senz’altro legittimo e del tutto normale voler approfondire il modo in cui nasce un prodotto di cui si è appassionati. Ma per il loro tenore e pertinenza - così ossessivamente puntigliose su questo o quell’aspetto produttivo, arbitrariamente scelto come parametro “fondamentale” per valutare il vino - esse appaiono dettate, solo assai raramente, da un autentico interesse nei confronti dei dettagli dei processi agricoli ed enologici della sua produzione. Sembrerebbe d'altronde sorprendente, a parte forse il caso di qualche "nerd" cultore della materia, che qualcuno nutra davvero interesse per tecnicalità assai specifiche - che occorre studio ed esperienza per comprendere e padroneggiare - se non altro per il fatto che non dovrà mai metterle in pratica. D'altronde, le ragioni del buon senso escludono la possibilità di poter capire tutto, e comprendere aspetti che solo chi ha competenze specifiche può davvero conoscere.

Come qualunque produttore di vino potrà facilmente intuire, e forse confermare, per esperienza di innumerevoli degustazioni e presentazioni dei propri prodotti, alla radice di una tale ossessiva curiosità per i procedimenti c’è forse, più probabilmente, una motivazione di tipo diverso. Piuttosto banale invero: il sospetto. Nell'era delle teorizzazioni e del marketing del "consumo consapevole", chi si presenta al pubblico con i propri vini - più in generale, con un qualche prodotto alimentare - deve accettare l'idea di doversi sottoporre, con pazienza ed umiltà, a estenuanti "due diligence" volte a dimostrare la sua immacolata rettitudine etica nell'espletamento della sua attività. Il criterio valutativo applicato è, in questa modalità cognitiva di consumo (consapevole), la presunzione di colpevolezza, con l'onere della prova di discolpa ovviamente a carico dell'accusato. Quindi, le interviste/interrogatorio: spiegami e dimostrami di essere un produttore “giusto” e eticamente irreprensibile.

Gli imprenditori vitivinicoli, in questo clima di 'caccia alle streghe' si difendono come possono, e a volte fanno tenerezza. C'è chi fa il finto tonto, e si rifugia nei panni della brava persona e del cugino ingenuo di campagna "che lavora con amore la sua terra e non può far male a nessuno"; che chi colleziona certificazioni - magari la cantina più strutturata, mettendo a budget appositi investimenti in "area marketing" - di sostenbilità, di rispetto ambientale, di responsabilità sociale, di sensibilità inclusiva, oltre a premi e riconoscimenti, e magari organizza convegni e promuove iniziative su queste materie. Ci sono i guru: quelli della biodinamica - una pratica esoterica, priva di fondamento scientifico e del tutto assimilabile alla stregoneria - e quelli del "vino naturale", che contestano e si pongono in contrapposizione a logiche produttive a loro dire "non naturali", senza tuttavia riuscire a chiarire in cosa consistano. C'è chi a tutto ciò ci crede davvero, chi meno e si adegua, poco importa: a muoversi da soli senza aderire a questa o quella fazione, in tempi di guerra settaria, il rischio concreto è soccombere, e uscire dal mercato.

Ma si può provare a spingersi un po' più a fondo nel comprendere la logica di questi atteggiamenti, elaborando sul concetto precedente della presunzione di colpevolezza. Ecco una proposta di spiegazione, senz’altro da verificare, e che tuttavia pare verosimile: la psicologia del complotto. L'abitudine cognitiva a interpretare i fenomeni, gli eventi e i problemi del mondo in termini di ricerca di colpevoli e di moventi intenzionali, invece che di cause oggettive inintenzionali. Semplificando un po': l'atteggiamento mentale e funzionale caratteristico delle pseudoscienze e delle credenze irrazionali. Lo si ritrova in politica, nelle polarizzazioni su temi economici, ad esempio legati all'ambiente, o sanitari, come i vaccini.

Lo si ritrova quindi, tristemente, nel calice di vino, e nelle assillanti richieste di "trasparenza" produttiva a chi ne è artefice, e di chiarimenti sulla probità del procedimento, per accertare la bontà del prodotto. "Prodotto, non procedimento!" è per converso la convinzione che deriva dalla scienza e dalla ragionevolezza applicate a questa piacevole materia. Come a dire: la pretesa di valutare un prodotto in base a questo o quel dettaglio del suo processo produttivo - la caccia al colpevole - è assurda e irrilevante. Le sole informazioni significative, oggettive e pertinenti che possiamo ottenere derivano dall'analisi del prodotto, e dall’esame delle sue caratteristiche fisiche, chimiche, microbiologiche, organolettiche, a prescindere da come ci si è arrivati.

Ma è soffermandosi un attimo su questa affermazione che si può scoprire un sorprendente risvolto: essa restituisce al vino e a chi lo degusta anche l'autentico piacere dell'esperienza estetica e emotiva. La scienza modestamente può accertare - a qualcuno forse sembra poco, ma è un risultato straordinario - se il prodotto ha una data composizione e determinate proprietà e caratteristiche e può assicurarci che non fa male (o meglio: che fa male, ma a piccole dosi si tratta di un rischio per la salute tutto sommato accettabile, per chi lo vuole correre e non vuole rinunciare a questo piacere).

Tutto il resto - le sensazioni, i ricordi, gli stati d'animo, i pensieri, che questo o quell'aroma o quella nota di gusto innescano in noi - rientrano nel mistero dell'esperienza soggettiva, il cui valore - come nell'esperienza dell'arte, o di un bel paesaggio - deriva proprio dalla sua insondabilità e dalla sua non replicabilità, inaccessibili all’indagine scientifica. Ed ecco ritrovato anche il significato, I piacere e la bellezza del produrre vino e dell'affidarsi, come consumatori, senza sospetti o assilli, a chi vi si dedica: rendere possibili, grazie all'arte vitivinicola - ai cui segreti solo con studio e esperienza si può sperare di accedere - questi momenti.