È ormai trascorsa più di una settimana dalla mattina in cui Salvador Ramos, diciottenne texano, ha ucciso sua nonna e fatto irruzione nella scuola elementare Robb di Uvalde e aperto il fuoco, sterminando diciannove bambini e due insegnanti, prima di essere freddato dagli agenti della polizia. Da più di una settimana, l’America convive con l’ennesima, macabra reincarnazione del suo incubo peggiore e più ricorrente: quello delle stragi scolastiche, di cui è letteralmente capitale mondiale, considerando che, al 2010, il totale dei massacri di tale genere perpetrati nei soli Stati Uniti eguagliava quello registrato complessivamente in ben altri trentasette importanti Paesi del mondo.

Quella di Uvalde è la strage scolastica con più vittime dai tempi del massacro di Sandy Hook del 2012, in cui persero la vita venti bambini e sei dipendenti dell’istituto.

“Perché queste stragi avvengono solo qui?” È il quesito che il Presidente Biden, visibilmente scosso, ha posto alla nazione nelle ore seguenti alla tragedia texana, durante la conferenza stampa alla Casa Bianca. Una domanda corretta ma che, nella sua natura retorica, sottintende una risposta a dir poco riduttiva e fuorviante alle cause del dilagare delle stragi e, più in generale, dei crimini perpetrati con armi da fuoco negli Stati Uniti, imputate quasi esclusivamente a normative in materia di possesso di armi tra le più permissive di tutto l’Occidente, riconducibili a una cultura connaturata al mito fondativo statunitense (la Frontiera, la Guerra di Indipendenza) e al “diritto dei cittadini di detenere e portare armi” sancito dal II emendamento della Costituzione.

Le dinamiche in seno a società complesse come quelle in cui viviamo hanno sempre origini e cause molteplici e, per tale ragione, l’individuazione di una soluzione efficace ai conflitti e alle criticità non può essere univoca e riporre una fiducia infondata nella capacità del legislatore di agire come fosse dotato di una bacchetta magica. Talvolta, infatti, proporre il cambiamento delle norme è presentata come una scelta dagli effetti taumaturgici, ma serve solo ad illudere l'opinione pubblica che fenomeni complessi potrebbero avere soluzioni semplici, se solo non mancasse la volontà di alcuni attori politici.

La conseguenza diretta della scaltra narrazione dominante, nata in risposta all’urgenza di “fare qualcosa” gridata dalla folla al memoriale di Uvalde e avallata dallo stesso Biden e da una pletora di celebrità, implica la relegazione in secondo piano delle reali cause che spingono un uomo a voler imbracciare un fucile per sterminare dei bambini in una scuola; su tutte, la dilagante epidemia di disturbi psichiatrici e del conseguente abuso di psicofarmaci e altre sostanze psicotrope negli Stati Uniti, dove, nel solo 2019, più di 50 milioni di cittadini risultano avere sofferto di una malattia mentale e mediamente, ogni anno, si registrano rispettivamente circa 48 e 28 milioni di prescrizioni di Xanax e Prozac, tra i tanti altri psicofarmaci assunti in dosi allarmanti e con tendenza in esponenziale aumento.

A onor del vero, durante la conferenza stampa rilasciata alla Casa Bianca, il Presidente non ha omesso i disturbi psichiatrici dai fattori che concorrono a spiegare lo sciagurato primato che gli Stati Uniti detengono tra i Paesi del mondo sviluppato in termini di sparatorie che coinvolgono almeno quattro individui e che hanno già tristemente superato quota 200 dall’inizio dell’anno. Ciononostante, le azioni da lui invocate, in termini di politiche pubbliche da adottare nel concreto, riguardano principalmente l’implementazione di maggiori restrizioni all’acquisto e alla detenzione di nuove armi da fuoco e l’inasprimento dei controlli sui precedenti penali e sul profilo psicologico degli acquirenti.

Infatti, a detta di Biden e di molti altri esponenti del partito democratico e del movimento per il gun control, le patologie mentali affliggono tanti individui anche in Paesi molto meno violenti, benché l’evidenza empirica conferisca agli Stati Uniti anche il triste primato degli adulti a cui è stato diagnosticato almeno un disturbo mentale (23%) in una classifica con altri dieci Paesi con reddito pro capite molto alto. A corredo di questo dato, balzano all’occhio anche la classifica sui suicidi, che vede nuovamente gli Stati Uniti in testa, e quella sulle morti causate da abuso di sostanze, in cui gli USA si piazzano secondi dietro alla sola Germania.

Quel che sembra sfuggire è che, fino a prova contraria, una pistola resta sempre e comunque uno strumento, non una causa, con cui viene perpetrato un omicidio, e la sola approvazione di leggi che il Presidente definisce “di buon senso” servirebbe a tentare di arginare le conseguenze della violenza, senza un reale contributo all’eradicazione delle sue cause profonde: tabù dai quali l’America preferisce spesso volgere lo sguardo per non prendere atto di come il sogno a stelle e strisce si sia gradualmente trasformato in un incubo.

La fiducia riposta dai democratici - e da chiunque si dica favorevole a misure di gun control - in un intervento legislativo di suddetto genere è sostanziata principalmente da studi che comprovano la correlazione tra il numero di armi possedute dai civili e quello di crimini a esse correlati, rimarcando soprattutto la differenza abissale tra il tasso di omicidi con armi da fuoco per milione di abitanti negli Stati Uniti (un impressionante 29.7) e negli altri nove Paesi del mondo con il più alto indice di sviluppo umano (appena 1.4 in Australia, 1.9 in Germania, 2.2 Austria).

Tuttavia, quel che non è possibile desumere da statistiche che si limitano a fotografare la realtà è l’efficacia che norme di già difficile attuazione (soprattutto per i vincoli costituzionalmente posti dal II emendamento) avrebbero sul tasso di omicidi in quello che risulta essere il Paese al mondo con il più alto numero di armi da fuoco, pari a circa 89 ogni 100 abitanti. In un Paese in cui i civili disarmati costituiscono l’eccezione, pensare di porre un qualche freno al terrore con suddette misure è alquanto utopico.

Allo stesso modo, è irrealistico credere di poter ridurre il numero di armi già detenute dai cittadini tramite le iniziative di gun buyback, che prevedono un indennizzo monetario per chiunque consegni le proprie armi da fuoco alle istituzioni ma che stentano a riscuotere successo - come documentato da una ricerca condotta dal National Bureau of Economic Research. Comprensibilmente, in una vera e propria situazione da dilemma del prigioniero, chi rischierebbe di rimanere indifeso per primo, sapendo che tutti gli altri sono ancora armati fino ai denti?I fautori delle pratiche di gun buyback sostengono che abbiano un significato prevalentemente simbolico, il che dimostra quanto ampio sia il divario tra la retorica del “fare qualcosa” e una realtà fin troppo complessa.

Alla luce di queste considerazioni, appare evidente come l’efficacia delle restrizioni nel resto dell’Occidente sia resa possibile dal fatto che sono in vigore da tempo immemore in società già di per sé più pacifiche: in sostanza, sono utili a scongiurare che l’Europa prenda la pericolosa china degli Stati Uniti, ma non è ragionevole credere che basterebbero a rendere l’America più simile al Vecchio Continente.

A edificare una retorica così naïf contribuisce l’individuazione del nemico oggettivo nella National Rifle Association, organizzazione dei detentori di armi da fuoco considerata una delle più potenti lobby d’America. Una narrazione impostata sulla fantomatica contrapposizione tra Davide (il popolo americano) e Golia (l’interesse organizzato dei produttori di armi), oltre a risultare demagogica, impedisce di prendere atto delle fratture e della polarizzazione in seno alla società statunitense. Dietro la coltre di fumo dello storytelling dei poteri forti che opprimono i cittadini, in fondo, si cela la semplice ma dura realtà di una democrazia rappresentativa che è specchio di un Paese diviso a metà e che, per alcuni versi, non ha ancora sanato i conflitti della Guerra di Secessione e in cui l’unità suggellata dal motto E pluribus unum è solo apparente.

In realtà, il fatto che l’approvazione delle “norme di buon senso” si areni in Senato non è imputabile alle lobby, ma alla composizione del ramo del Congresso in cui gli Stati membri sono rappresentati tutti in egual misura da due senatori, finendo così per favorire le istanze di tanti piccoli Stati di tradizione marcatamente più conservatrice.

Impedire che il numero di armi detenute da civili potenzialmente pericolosi aumenti è certamente un dovere; illudere una nazione a lutto che ciò possa bastare è semplicemente demagogico e irresponsabile. In quest’ottica, la linea che separa i fautori del gun control dai cosiddetti gun enthusiasts come il governatore texano Greg Abbott appare estremamente sottile. Infatti, per quanto i democratici siano fermamente convinti di sedere dalla parte giusta e morale della storia, nessuno dei due schieramenti, in realtà, sta rendendo un buon servizio al Paese. Per uscire dall’impasse sarebbe forse di aiuto operare un ribaltamento di prospettiva, che prenda atto della dimensione sociale e psicologica della violenza e non tenti di spiegare le stragi a partire dalla legge ma, al contrario, provi a riflettere sul fatto che, in democrazia, una legge non è altro che una fotografia, nel bene e nel male, di una comunità politica, dei suoi valori e disvalori.

Quella americana è la fotografia di un Paese che, negli ultimi anni, ha rischiato a più riprese di precipitare in un sanguinoso conflitto razziale e politico, dove le situazioni di marginalità, disoccupazione e degrado sono in costante aumento, mentre la torta del benessere si restringe e sempre più persone rischiano di rimanere senza una fetta.
Salvador Ramos non era un suprematista bianco, ma un diciottenne di origini messicane, in condizioni economiche precarie, bullizzato a scuola per la balbuzie e l’aspetto fisico, figlio di un padre assente e di una madre tossicodipendente. È anche da questo ritratto che si può cominciare, per tentare di dare una spiegazione all’orrore.