Rothbard grande

Una delle idee teoriche più importanti dell'economia nel XX secolo è quella di esternalità, cioè la possibilità che costi e benefici verso altre persone possano rendere non ottimale la concorrenza. Originariamente era una critica del mercato, e per questo motivo il fondatore del libertarismo, Rothbard, prese la decisione teoricamente più debole possibile: negare che le esternalità esistessero o fossero rilevanti.

Nel bigottismo libertario moderno, che è sempre più moralistico e meno teoretico, l'idea di esternalità è cattiva in sé perché le esternalità rendono difficile - se non impossibile - l'anarcocapitalismo (un'utopia per cui la società può funzionare senza istituzioni che impongono decisioni collettive, come un grosso mercato), e quindi chi ne parla è in automatico "moralmente" sospetto. La "mentalità scientifica", questa sconosciuta.

Negare un'idea teorica per le sue conseguenze ideologiche è assurdo sia intellettualmente che moralmente: intellettualmente è la negazione del principio "sed magis amica veritas", e moralmente è una fuga dalla realtà, perché se una cosa è vera prima o poi bisognerà farci i conti, e negandola si può costruire soltanto un castello di carte intrinsecamente fragile.

Nel frattempo, nell'arco di cinquanta e più anni, l'idea di esternalità è stata usata per spiegare i diritti di proprietà, il funzionamento e l'origine delle istituzioni, i problemi di azione collettiva e i problemi dei fallimenti pubblici. Così, mentre Williamson, Coase, Buchanan, Tullock, Olson, North facevano enormi progressi teorici e vincevano anche premi Nobel, la "Scuola Austriaca" è rimasta nel suo orticello autoreferenziale senza fare grossi passi avanti. Un binario morto teorico di (alcune) buone idee tenute a marcire nei cassetti. Principale responsabile di questa stagnazione, Rothbard e il suo fallimentare approccio di mescolare ideologia e teoria, giudizi di valore e giudizi di fatto, comprensione della realtà e azione politica (o meglio, più che altro, voli pindarici spacciati per attivismo politico).

Le basi teoriche, e l'idea stessa di indagine scientifica, sono indebolite dai diktat ideologici legati a giudizi di valore su come dovrebbe funzionare il mondo, indipendentemente da come funzioni effettivamente, unico obiettivo legittimo della scienza (per quanto insufficiente, ovviamente, per "muoversi" nel mondo reale, essendo i giudizi di valore inevitabili). I progressi teorici sono stati pochi e rari dal secondo dopoguerra. Molti "filoni di ricerca" sono in realtà solo filosofia morale, non tentativi di "comprendere il mondo", ma (illudersi di) "cercare di cambiarlo" (chi sto citando? Ehm... Marx, un altro che del mondo non capiva nulla, ma è la base di innumerevoli pipponi moralistici su come si suppone debba funzionare).

Non c'è da stupirsi dunque del legame, venuto fuori con molta evidenza di recente, tra libertarismo e teorie del complotto: una volta che si cade nel pensiero magico, è difficile uscirne. Il libertarismo ha la tendenza, rafforzata dal suo fondatore, a confondere l'essere e il dover essere, e quindi a negare la realtà in nome degli ideali, come se questi ultimi possano esistere indipendentemente dalla prima.
Tornando all'argomento centrale, le esternalità sono onnipresenti, sia nel mercato che nella politica: anzi, nell'ultimo caso sono dominanti, perché ogni decisione collettiva ha per definizione effetti esterni (positivi per chi vince, negativi per chi perde: quasi tutte le decisioni collettive sono a somma nulla).

Quindi gran parte della difficoltà della società umana non è far funzionare il mercato (salvo casi di forti esternalità, monopoli naturali, etc.), ma far funzionare la politica: questa sfida non si può evitare, perché non esistono società senza decisioni collettive, con buona pace degli anarchici. Imparare a contenere l'impatto delle esternalità è fondamentale per qualunque comunità politica, ed è per questo che la democrazia tende facilmente a degenerare verso l'oligarchia (quando il gioco favorisce i pochi) e l'oclocrazia (quanto tutti si illudono di vivere a spese di tutti gli altri, impoverendosi inevitabilmente a vicenda), e poche nazioni sono in grado di darsi delle istituzioni funzionanti in maniera stabile, efficiente e lungimirante, mentre molte vivacchiano (come l'Italia) e alcune si autodistruggono (come il Venezuela). La democrazia è l'arte di rendere le esternalità politiche meno dannose per la convivenza civile, l'efficienza economica, la prosperità, la sicurezza, la salute pubblica, etc. L'arte di navigare tra l'oligarchia e l'oclocrazia, nonostante le innate tendenze della politica a degenerare in entrambe le direzioni, Scilla e Cariddi.

In tutto ciò, un'altra tendenza naturale della democrazia è accrescere e accentrare il potere politico e ridurre lo spazio delle decisioni individuali per accrescere il potere di politici, amministratori, tecnocrati, per favorire alcuni interessi ben organizzati a danno dell'interesse di tutto il resto della società, e per rendere meno evidente l'inefficienza delle scelte pubbliche prese in questo modo (come scrisse Mises, più una nazione è grande più può sbagliare). Su questi punti sarebbe fondamentale il pensiero liberale, a patto che non degeneri in pensiero magico, teoria del complotto, utopismo, moralismo fine a sé stesso, e santimonia autoreferenziale.