comunicazione scientifica grande

Qualche giorno fa, seguendo su Facebook un’accesa disputa sui veri e presunti benefici dell’agricoltura biologica, mi è tornata alla mente un’immagine della mia infanzia: una litigata terribile tra me e mia sorella a proposito di un puzzle. Lo avevamo appena iniziato e dai pochi pezzi che stavamo cominciando a comporre ciascuno affermava di sapere cosa rappresentasse l’immagine completa. “È un gatto!” dicevo io, avendo trovato quello che sembrava un dettaglio del muso. “È’ un aeroplano!” ribatteva mia sorella, mostrandomi una tessera con il disegno di un pezzo di motore. Ognuno dei due, convinto della propria opinione, non voleva sentire ragioni.

L’episodio mi è sembrato molto rappresentativo del modo in cui viene spesso gestita la comunicazione scientifica rivolta al grande pubblico e dei dibattiti che ne seguono. Buona parte della disinformazione non nasce da notizie false, ma da notizie vere decontestualizzate, talvolta inconsapevolmente, talvolta di proposito. È il caso di molti giornali, siti e social media, che presentano singole pubblicazioni con toni sensazionalistici, sbandierando “verità scientifiche” inoppugnabili. Piccoli frammenti del mondo della ricerca che si impiantano nel tessuto sociale e trasformano le discussioni in campi di battaglia: i dati, le dimostrazioni, le misurazioni diventano delle armi usate senza riserva da fazioni opposte per far prevalere la propria opinione. A rimetterci siamo noi, io e te, i cittadini, che viviamo nella confusione e non abbiamo gli strumenti adatti per costruirci un’opinione e fare scelte consapevoli. Per fortuna il “problema della tessera del puzzle” ha una soluzione: le revisioni sistematiche.

La scienza non funziona per verità assolute: ogni ipotesi deve essere messa alla prova, testata tramite esperimenti, e solo quando, dopo molti sforzi, non si sarà riusciti a dimostrare che è falsa, si potrà affermare che è ragionevolmente vera. Gli stessi esperimenti devono essere ripetuti da altri ricercatori in maniera indipendente (in “scientifichese”: devono essere riproducibili) e non è affatto scontato che diano gli stessi risultati. Oppure, una ricerca su un argomento affine potrebbe portare a conclusioni contrastanti rispetto alle precedenti. Gli articoli su un argomento si accumulano e una teoria può avere prove che la supportano e prove che sembrano smentirla: solo dopo molto tempo e moltissimo lavoro la comunità scientifica può affermare di aver raggiunto una solida conoscenza su un certo tema.

Presentare un singolo studio è come osservare una singola tessera di un puzzle: è qualcosa di concreto, ma non è sufficiente per affermare qualcosa dell’immagine completa, fornisce una visione parziale del problema o delle sue soluzioni. Raramente un lavoro è falso (selezionare articoli da riviste peer reviewed, cioè con un processo di revisione, è una buona garanzia), talvolta ci possono essere degli errori in buona fede (assunzioni imprecise, strumenti di misurazione imperfetti, altri imprevisti), spesso capita che sia un po’ “di parte”. Anche i ricercatori sono umani e si affezionano alle loro ipotesi: se credono fermamente in una tesi, faranno di tutto per trovare o vedere evidenze che la supportino. Questo può, inconsciamente, portare a errori (in “scientifichese”: i bias): selezionare solo i frutti più belli, tralasciare una misurazione poco convincente, trascurare un test di controllo… Questo ci fa capire che i risultati di un articolo (anche quando sono entusiasmanti e non si vede l’ora di diffonderli al grande pubblico!) vanno trattati con cautela.

Media e social media si assumono una grande responsabilità nel fare da cassa di risonanza alle notizie provenienti dal mondo scientifico. Si tratta di informazioni di grande interesse per il pubblico, che però sono spesso presentate senza la giusta contestualizzazione: quali sono tutti gli studi passati che hanno condotto fino a quel punto? Ci sono opinioni contrastanti sul tema? Le conclusioni tratte dagli autori sono confermate da altri esperti? Il cittadino che non ha familiarità con il funzionamento del metodo scientifico viene bombardato di studi, dati, affermazioni, dimostrazioni che non è in grado di gestire correttamente.

Questo meccanismo può essere abilmente usato per fare marketing o per diffondere un’opinione nella popolazione. Come? Presentando articoli che dimostrano quanto un prodotto, un’abitudine, un processo facciano bene o male. Gli esempi sono numerosi, e con sfumature molto diverse: dalla disinformazione legata ai vaccini ai presunti rischi degli OGM e delle biotecnologie vegetali, dagli alimenti buoni o cattivi alle possibili soluzioni per combattere il cambiamento climatico, fino alla contrapposizione ideologica tra agricoltura convenzionale e biologica. Il rischio maggiore è la strumentalizzazione dell’informazione scientifica, con l’obiettivo di veicolare messaggi vantaggiosi per chi li diffonde. Dai dibattiti tra cittadini alle scelte politiche il passo è breve, e purtroppo anche i policy makers possono cadere vittima del problema della "tessera del puzzle": il rischio che le loro scelte siano basate su pochi dati parziali, invece che su un insieme consolidato di conoscenze, va assolutamente evitato.

C’è un modo per proteggerci? Le systematic reviews, ossia le revisioni sistematiche. Si tratta della cosa più vicina alla “verità” di cui disponiamo. Queste review sono il risultato di un lavoro paziente e imparziale: si prendono tutti gli articoli sul tema, nessuno escluso. Poi si opera una selezione, eliminando quelli che non rispettano stringenti standard di qualità. Questa selezione è severa: si salvano solo i lavori non soggettivi, trasparenti e riproducibili. Dopodichè si lascia parlare gli articoli, confrontandoli, soppesandoli, integrandoli. Dove possibile, i dati vengono combinati in modo da svolgere analisi robuste su campioni sufficientemente grandi (in “scientifichese”, le chiamiamo meta-analisi). In pratica, si tratta di provare ad assemblare il puzzle con tutti i pezzi che abbiamo a disposizione in un dato momento. La review indica anche quali sono i punti meno chiari del problema, indicando quindi in che direzione spingere le ricerche; in un certo senso, suggerisce il tipo di tessere da cercare per completare il puzzle.

La conclusione di alcune review è “non ci sono abbastanza evidenze per ritenere una teoria migliore dell’altra”. Su molti temi, soprattutto se sviluppati in tempi recenti, non ci sono review sistematiche. Bisognerebbe evitare di presentare al pubblico articoli su questi argomenti, lasciandolo all’oscuro degli avanzamenti della ricerca, anche quelli più appassionanti? Assolutamente no: è doveroso aggiornare i cittadini sugli sviluppi della scienza. Ma serve un diverso tipo di comunicazione, meno polarizzante, che stimoli alla curiosità e alla riflessione critica, che ponga domande, senza tuonare risposte. Una comunicazione costruttiva, che ha come obiettivo la maturazione degli ascoltatori e non l’alimentazione di discussioni nocive. A proposito, volete sapere come è finita la discussione tra me e mia sorella da piccoli? Avevamo ragione entrambi: il puzzle rappresentava un gattino che fa capolino da un aeroplano giocattolo.