fake news grande

Nel 1894, circa un secolo prima della nascita del World Wide Web, l’illustratore statunitense Frederick Burr Opper pubblicava una stampa ritraente un uomo con in mano un giornale che riporta la dicitura “fake news” a caratteri cubitali. A cosa alludeva Opper, in un mondo privo di blog, pagine Facebook, catene di Sant’Antonio e hacker russi? L’artista intendeva muovere una critica nei confronti della stampa scandalistica, al tempo definita yellow journalism, che proprio in quegli anni nasceva e si diffondeva sulle pagine di alcuni dei principali quotidiani statunitensi.

Alcuni anni dopo, in occasione della guerra ispano-americana del 1898, la stampa sensazionalistica raggiunse vette inedite di disonestà intellettuale e manipolazione della cronaca a scopo propagandistico. “Tu forniscimi i disegni e io fornirò la guerra”, sembrerebbe aver ordinato William Hearst, editore del New York Journal, in un telegramma al suo illustratore inviato a Cuba, che riferiva di una situazione tranquilla, senza possibilità di degenerare in un conflitto bellico.

Quella di Hearst, magnate dell’editoria che ispirò il protagonista di Quarto Potere, è una storia che tutt’oggi vale la pena ricordare, in un mondo della comunicazione che si affanna, ancor prima che a immaginare soluzioni per debellare la piaga delle fake news, a convincere se stesso e i suoi lettori che suddetto fenomeno - vecchio come la carta stampata - sia nato e rimasto relegato solo ad alcuni blog, profili social e testate online non accreditate.

La qualità della classe dirigente e dei media è un ottimo indicatore dello stato di salute di un Paese, e il modo in cui persino le più autorevoli testate italiane stanno raccontando la pandemia di coronavirus ci restituisce un’immagine dell’Italia a dir poco sconfortante. Alla luce di episodi di bassezza e disonestà intellettuali disarmanti, appare sempre più evidente come, alla devastante crisi umanitaria ed economica che attraversa il Paese, si sommi una crisi di credibilità internazionale che investe tanto la classe politica quanto i media italiani.

“Una spirale di disinformazione”. È così che l’ambasciata di Svezia in Italia ha definito, in un post Facebook in cui tagga nientedimeno che la Repubblica e Il Corriere della Sera, la campagna di manipolazione condotta dai nostri giornali, che getta discredito sulla strategia di contenimento dei contagi che non prevede lockdown attuata dal Primo Ministro svedese Löfven, riportando un’intervista tradotta male e decontestualizzando in modo fuorviante alcune affermazioni del premier.

Di contro, dalla Germania - altro Paese europeo che, come la Svezia, sta riscuotendo successo nella lotta al coronavirus con misure decisamente meno draconiane di quelle italiane - giunge un esempio di giornalismo che mostra coraggio nel ribattere alle intimidazioni del Governo cinese. Con la lettera al presidente Xi Jingpin il direttore del Bild Julian Reichelt non ha solo rispedito al mittente le critiche dell’ambasciata cinese a Berlino - malcelato tentativo di ingerenza di Pechino nella linea editoriale del tabloid tedesco - ma ha anche ribadito come la Cina, con menzogne, ritardi e omissioni, sia la principale responsabile della pandemia.

Nel frattempo, a casa nostra, politica e media si esibiscono in tandem nella loro squallida performance dall’inizio dell’emergenza COVID-19. Sulle pagine del Fatto Quotidiano, infatti, è comparsa una lettera a firma di Alessandro Di Battista  dai toni spudoratamente apologetici, in cui l’ex deputato grillino sostiene che "la Cina … è riuscita a trasformare la sua immagine da untore ad alleato nel momento del bisogno” e che “vincerà la terza guerra mondiale senza sparare un colpo e l’Italia può mettere sul piatto delle contrattazioni europee tale relazione”, suggerendo, di fatto, di calare la carta delle relazioni privilegiate con la potenza asiatica come un ricatto bello e buono ai nostri alleati.

Solo uno sprovveduto, dietro la lettera di Di Battista, non scorge la mossa di un socio di Governo - il Movimento 5 Stelle - che da anni lavora per avvicinare Roma più a Pechino che a Bruxelles, nascondendosi dietro al paravento di un ex parlamentare - formalmente fuori dai giochi - per non destare il legittimo sospetto di una prostrazione anomala, a prescindere dal memorandum d’intesa sulla Via della Seta, e che meriterebbe un’inchiesta - quanto meno giornalistica - su possibili ingerenze illecite di Paesi terzi nella politica italiana, così come avvenuto per la presunta trattativa Lega-Russia.

Si tratta del culmine di settimane di circo mediatico in cui, tanto la politica quanto i giornalisti, hanno tessuto le lodi e garantito un megafono alla propaganda imperialista di una dittatura che, dopo aver provocato una “Chernobyl” delle epidemie virali, vorrebbe porvi rimedio semplicemente inondando il mondo di mascherine, senza assumersi alcuna responsabilità e smarcando così l’ipotesi di una forma concreta di risarcimento per la catastrofe procurata.

È l’epilogo di un giornalismo - quello italiano - debole, incapace di innovarsi e proporre prodotti editoriali competitivi, che ha perso il treno della digitalizzazione e, ora più che in passato, vive di relazioni con la maggioranza parlamentare di turno, rinunciando alla propria autonomia e finendo spesso per violare il codice deontologico pur di fare sponda alle narrazioni propagandistiche di chi governa.

È tutta qui la differenza tra chi svolge la professione in modo integro e chi, al contrario, sembra vivere sperando che oltre il confine si registrino più decessi e casi di persone infette, per indurre gli italiani a credere che altrove la situazione sia persino peggiore. Se poi i dati che giungono dal resto d’Europa non sono quelli sperati, basta accusare sfacciatamente i nostri alleati di falsificarli.

Allo stesso tempo, però, si lascia che a fare luce su come la criminalità organizzata si sia intestata la gestione del welfare in molte aree a basso reddito del Sud, distribuendo generi alimentari alla popolazione siano principalmente testate straniere come il Guardian. Popoli più civili esprimono classi dirigenti migliori e, di conseguenza, eleggono governi più adatti a garantire il benessere di una società.

Qualora gli esempi forniti dalla nostra storia più recente non fossero abbastanza, il coronavirus ha fatto venire al pettine i nodi di un Paese strutturalmente fragile, mettendo definitivamente a nudo una classe dirigente di infimo spessore. Ne usciremo, ma come una nazione moralmente, oltre che economicamente, rasa al suolo.