stradedelcibo-quadratoIn Italia, dall’inizio del 2013 o poco prima, è in corso la più significativa epidemia associata agli alimenti vista nel mondo occidentale dopo quella tedesca di origine batterica del 2011. L’epidemia tedesca si rivelò conseguenza di germogli di origine egiziana, contaminati con batteri particolarmente aggressivi. Nel caso italiano, si tratta di epatite A. E' certo che si tratti di frutti di bosco contaminati con materiale fecale di portatori del virus. I casi riportati alle autorità italiane, e quindi abbastanza seri da meritare attenzione medica, associati ai frutti di bosco sono almeno oltre 800, con una quota notevole di ricoveri. L’epatite A ha generalmente un decorso benigno; in una minoranza dei casi le conseguenze sono più gravi. Anche se non sono stati diffusi dati sui casi più gravi (epatite fulminante, trapianti resisi necessari, decessi), anche sperando che quest’epidemia sia particolarmente lieve, l’attesa è che il 2% circa dei casi riguardanti persone oltre i 50 anni di età finisca per avere problemi seri.

Non deve sorprendere che di questa epidemia i media si siano occupati così poco, dedicando invece spazio a rischi del tutto ipotetici, come quello degli OGM, o dei maiali portati davanti al Parlamento. La stampa locale italiana va ancora alla ricerca di notizie negli ospedali; al contrario, la stampa nazionale, almeno in campo alimentare, tende a ripetere le notizie lanciate dal Ministero e riprese dalle agenzie di stampa, e a muoversi sugli input del più abile ed influente attore del settore alimentare italiano, Coldiretti – la cui linea, legittimamente, non è certamente di parlare di problemi legati al Made in Italy. La conseguenza è che i fatti, anche di proporzioni straordinarie come in questo caso, non riescono a destare l’attenzione del nostro giornalismo. Del resto non ci vorrebbe molto perché alcuni mezzi d’informazione specialistica e tecnica da mesi forniscono dati piuttosto dettagliati.

frutti congelati

Ma come è possibile che l’epidemia, pur rallentata, non sia ancora stata fermata, e non se ne conosca l’origine? Se sono stati ritirati dal mercato una ventina di prodotti, ci sono pochi dubbi che si tratti di una situazione molto complessa: sono coinvolte più d’una impresa italiana, i frutti di bosco congelati sono di diverso tipo, e, rintracciando la filiera, non si è riusciti ad arrivare ad un’origine comune (è probabile che all’origine ci siano state coltivazioni irrigate con acqua contaminata con scarichi fognari nell’Est Europa, ma non si escludono altre strade). Allo stesso tempo, forse anche per la mancanza di pressione da parte dell’opinione pubblica, ha sicuramente contribuito un’azione poco trasparente, lenta ed incerta delle autorità italiane. Persino l’identificazione iniziale dell’epidemia non è avvenuta in Italia, nonostante segnali epidemiologici preoccupanti, ma in Germania ed Olanda, a causa di turisti tornati ammalati, a Marzo, da vacanze in Trentino.

Al momento attuale, gli indizi sull’origine delle materie prime conducono verso la Polonia. Da questo paese, secondo i documenti italiani, sono però arrivate pochissime informazioni per trovare un’origine comune. La normativa comunitaria impone obblighi molto precisi: si dovrebbe poter risalire alle aziende agricole produttrici senza difficoltà. Non si capisce però se i polacchi non abbiano applicato le norme, o semplicemente resistito alle richieste di informazione italiane. Ma non si sa neppure ci sono state proteste italiane. Di certo, c’è stato un generale sollievo quando, con il comparire di casi anche in Irlanda, Francia ed Olanda (molto pochi rispetto all’Italia), si è appreso che le autorità europee si occuperanno direttamente della questione.

Se ci sono aspetti ancora non noti (e che forse non lo saranno mai), si sa che la risposta italiana c’è stata ma è stata carente sotto molti punti di vista. Dopo l’allarme di Marzo ed Aprile, alle aziende sono state fornite poche indicazioni precise; a fine Aprile, circolava la voce che il problema fosse risolto, mentre la fase peggiore stava ancora per iniziare. Era evidente che i frutti di bosco surgelati possono restare nei congelatori per mesi o anni, che sono consumati spesso senza cottura e sono utilizzati, senza trattamenti termici capaci di uccidere i virus (la bollitura), anche per torte gelato, per gelati e per molti altri prodotti tipici dei consumi estivi. Il Ministero della Salute non ha promosso, e non promuove, nessuna comunicazione capillare sull’argomento; le notizie sul sito sono difficili da reperire. I dati scientifici erano già chiari: l’unico trattamento sicuro era la bollitura. Ma si sono dati messaggi ambigui fino a settembre, ed ancora oggi pochi sanno che il consiglio ufficiale è di consumare i prodotti sempre e comunque dopo due minuti di bollitura, senza quindi dare alcuna indicazione alle decine di migliaia di pasticcerie e gelaterie artigianali. In sostanza, si è sperato che il problema passasse da solo. Invece, con i frutti di bosco ancora nei congelatori, l’epidemia è diminuita d’intensità ma non è ancora passata.

Non solo. In Italia le ASL non hanno spesso l’aggressività necessaria per le indagine epidemiologiche; il coordinamento centrale è scarso; l’attenzione da quello preventivo passa spesso subito all’aspetto giudiziario. Ci si è basati sui riscontri analitici mentre, quando il problema è di questa natura, anche da un punto di vista puramente economico è meglio eliminare una partita sospetta (e non confermata) in più, che lasciare che il problema continui. Siamo al punto che le più prestigiose catene di supermercati, nell’incapacità di industria ed autorità di risolvere il problema, hanno dichiarato di non vendere più questo tipo di prodotto.

I danni sanitari ed economici sono quindi evidenti; è quasi certo che quando gli italiani avranno consumato tutti i frutti di bosco (o gelati, e così via)  nei loro congelatori, ammalandosi se del caso, l’epidemia finirà. Quello che è meno certo è se almeno tra gli addetti ai lavori si superi il mito superficiale di un sistema di sicurezza alimentare italiano straordinariamente efficace, al contrario di quelli dei paesi dell’Europa centro-settentrionale. In realtà, come in altri,  in questo settore abbiamo, oltre all’indiscussa tradizione gastronomica, punte di eccellenza, straordinari esempi tecnologici, una burocrazia tecnica migliore della media, ma anche numerose criticità, poca trasparenza, e tante situazioni ambigue; a volte, mentalità e cultura provinciali di parte del personale anche aziendale, nonostante l’inserimento nei circuiti mondiali (a testimonianza di questo c’è il consenso quasi universale tra i “tecnici” italiani che fosse un episodio imprevedibile, mentre già nel 1997 un episodio simile, anche se più limitato, era accaduto negli USA con fragole congelate). Purtroppo, questo mito di un sistema decisamente superiore, e di alimenti conseguentemente sempre privi di problemi, è diventato un mantra ripetuto acriticamente, anche da chi dovrebbe avere professionalmente il dovere di rispettare i dati disponibili, e ha le sue radici nella distorsione di confondere l’estensione di una burocrazia (a volte, esemplare per dedizione e preparazione), e la presenza di una normativa ispirata alla repressione penale, con il risultato effettivo, cioè  con la capacità reale di incidere decisamente sulla sicurezza degli alimenti.

In questa vicenda può aver pesato la preoccupazione di colpire il tenore dei consumi di questo tipo di prodotti, e le relative aziende.  Ma non è certo un atteggiamento a favore del mercato. Un’azienda può essere rovinata dalla pubblicità negativa (ma, come si è visto anche questa volta, meglio usare il bisturi presto e bene che rischiare poi l’amputazione), ma, come in tutti i campi, se esistono i rischi del mestiere, esiste la possibilità di assicurarsi (e forse qui potrebbe esserci un ruolo pubblico se proprio lo si vuole prevedere a sostegno delle PMI). La mancanza di trasparenza non favorisce le imprese più efficienti, ed affida all’autorità sanitaria non solo l’obbligo di agire diligentemente per evitare allarmi ingiustificati, ma anche quello di preoccuparsi degli interessi economici specifici e generali. Ma questa ricerca di equilibri, affidata ad un mediatore terzo tra produttore e compratore, non funziona per i consumatori, per le imprese più virtuose, e per il settore che continua ad avere - anche in questo caso - il problema irrisolto.