anti trump

Dopo la vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali americane, in numerosi atenei d’oltreoceano alcuni professori hanno consentito agli studenti di non presentarsi agli esami o alle lezioni se colti da shock per il risultato elettorale. In aggiunta, alcuni studentati hanno organizzato “safe space” per rilassarsi in caso di attacchi di paura o di panico.

A meno di gravi sconvolgimenti naturali e socio-politici, credo che sia assurdo ritenere che le reazioni emotive debbano influenzare la vita di un'istituzione come l'università.

Mi vengono in mente alcune considerazioni. 
In primo luogo, un'emozione negativa (come il senso di sconfitta o la paura) è qualcosa che bisogna imparare a gestire. Dinnanzi ad essa, non si può pensare di rifugiarsi sistematicamente in qualche "safe space". Questa è un'ovvietà. Ma imparare a gestire un'emozione significa compiere uno sforzo e implica, in ultima istanza, che alcuni riusciranno a gestirla e altri non vi riusciranno. Il fatto che si crei una diseguaglianza di questo tipo è (per molti) assolutamente inaccettabile. Ecco perché è più facile consentire alla gente di fuggire e trovare qualche rifugio. Ecco perché la nuova utopia egualitarista consiste nel trasformare - a partire dai campus - il mondo intero in uno sterminato "safe space".

Ma allora coloro che non imparano a gestire le emozioni, i più deboli, che fine faranno? E i membri delle cosiddette "minoranze", che paiono più facilmente esposti a fattori sociali che inducono emozioni negative? Che ne sarà di loro? Cominciamo con il constatare che i "safe space" e i "trigger warnings" non aiuteranno nessuno né a sentirsi più forte, né a sentirsi più libero. Al contrario, essi renderanno i loro fruitori sempre più dipendenti dalle istituzioni, dalle organizzazioni, dalle personalità e dalle fazioni politiche che meglio sapranno offrire tali rifugi - e presumibilmente alcuni politici sono interessati proprio a questo. Aiutare i più deboli, viceversa, consiste semplicemente nell'aiutarli a diventare forti, nello scoprire le risorse per superare la reazione negativa, magari anche nello spingerli ad impegnarsi in prima persona contro i fattori "di pericolo". Questo significa crescere. Pongo una domanda provocatoria: cosa sarebbe accaduto se, negli anni '50 e '60, gli afroamericani si fossero rifugiati nei "safe space" prontamente offerti loro da qualche bianco tollerante, piuttosto che impegnarsi nella lotta per i diritti civili? Dalla rabbia, dalla paura, dal senso di sconfitta, talora può anche provenire qualcosa di buono per tutta la società. 

Ma perché molte organizzazioni hanno iniziato a combattere le opinioni avverse alle proprie invocando la necessità di tutelare la gente dalle emozioni negative? Perché si sono impegnate così tanto nel far passare l'idea che, per il fatto di suscitare una qualche reazione emotiva negativa, una certa opinione possa essere non soltanto sbagliata, falsa, o al limite stupida, ma addirittura illegittima - sì da non poter essere espressa? Evidentemente, perché le emozioni - a differenza delle argomentazioni - non si possono confutare. Di più: le emozioni non si possono neppure giudicare, dal momento che l'unico giudice dell'esistenza stessa di un'emozione è il soggetto che la prova. In nome di queste entità parzialmente sfuggenti, si muovono crociate, si mettono al bando personaggi e teorie, si annullano eventi, lezioni, esami. 

Aggiungo: non solo le emozioni sono entità parzialmente sfuggenti, ma anche facilmente manipolabili. Prendiamo appunto il caso di Trump. Di certo il responsabile della paura di molti elettori dinnanzi ad alcune affermazioni sulle donne, i messicani, etc., non può che essere il loro autore, cioè Trump stesso. Nondimeno, mi chiedo cosa sarebbe avvenuto se, invece di riprendere ossessivamente le affermazioni di Trump, i media le avessero trattate per ciò che erano, cioè enormi stupidaggini che, per il solo fatto di ottenere risonanza, consentivano a Trump di farsi pubblicità. Questo trattamento mediatico del tutto sbagliato - che in occasione del referendum sulla Brexit è stato chiamato "Project Fear" - è stato sicuramente una concausa del fatto che molti studenti si siano voluti rifugiare nei loro "safe space". Del resto, occorreva suscitare emozioni negative, allo scopo di manipolare gli elettori in favore della Clinton: gli indecisi, presi dalla paura e dal disgusto, avrebbero votato la candidata democratica, mentre i presunti elettori di Trump, presi dal senso di colpa, dalla paura di essere giudicati male o dall'incertezza, si sarebbero astenuti o avrebbero votato qualcun altro. Quindi, finché l'emozione negativa poteva essere manipolata, tutto risultava accettabile. Quando il gioco è sfuggito di mano, ecco scoppiare il grande scandalo.


Se si fosse prestata davvero attenzione all'animo umano, ci si sarebbe facilmente accorti di due verità che oserei definire autoevidenti. La prima è che, dinnanzi ad un'emozione negativa, lo slancio di molti consiste nell'opporvi un'emozione positiva: mi fate paura perché voto Trump? Allora cerco il conforto di... Trump stesso come presidente. Mi fate venire il senso di colpa? E io mi prendo il gusto di essere libero e di mandarvi a quel paese. La seconda è che, proprio per questo motivo, la paura non sempre consente di vincere un'elezione - e ce ne siamo accorti già due volte nel solo 2016. Viceversa, è più facile che l'elettore fugga da chi alimenta continuamente quella paura stessa.