L’anomalia ATAC è a tutti gli effetti il segno più chiaro dell’anomalia di Roma e della sua realtà di città ‘extra-europea’. Il referendum è quindi eroico perché prova a far entrare l’Europa a Roma o per meglio dire a far rientrare Roma in Europa.

 

palma

 

Domenica 11 novembre Roma voterà su se stessa, perché ATAC non è solo un'azienda pubblica di servizio, ma è l’autobiografia della città, il concentrato dei vizi e la rappresentazione paradossalmente più perfetta della realtà politica della Capitale.

A dimostrarlo basterebbe il fatto che anche lo “tsunami” pentastellato, che ha investito Roma prima del resto della penisola, non solo non ha rivoluzionato nulla della vecchia azienda capitolina, ma l’ha consolidata in tutti i suoi difetti più caratteristici. La Raggi, come tutti i suoi predecessori, ha trattato ATAC come una variabile indipendente del sistema di potere e di consenso romano.

L’anomalia ATAC è a tutti gli effetti il segno più chiaro dell’anomalia di Roma e della sua realtà di città “extra-europea” non solo per i livelli e la qualità del servizio, ma anche per quelli del dibattito politico sui possibili rimedi al default del trasporto nella Capitale, che oscilla tra il negazionismo di matrice sindacale e l’ideologia del “servizio pubblico”, che unisce in un unico partito del No a qualunque vera riforma l’estrema destra, l’estrema sinistra e l’estremo centro della politica romana.

A Roma non c’è, in senso stretto, un servizio di trasporto. Ci sono certo corse, ma non esiste in senso stretto un servizio. Gli autobus passano, ma anche no, funzionano, ma anche si incendiano. E le linee della metropolitana sono poche e evidentemente sottodimensionate e diventano vere e proprie trappole per gli utenti che ogni volta – costretti a prenderle – devono sperare di cavarsela: che la metro funzioni, invece che no, arrivi e non si fermi e che la sua frequenza non renda le banchine delle gabbie claustrofobiche e pericolose. Questo, ovviamente, al netto degli incidenti sempre più frequenti e delle cose incredibili, a metà tra la letteratura di Ionesco e quella di Flaiano, che accadono “normalmente”: gli scioperi ponte del venerdì o quelli serali in corrispondenza delle partite di calcio, la rivolta dei conducenti che vivono come un affronto la richiesta di timbrare il cartellino all’inizio del servizio, la pasionaria grillina che prima diventa l’eroina dell’Atac e poi viene licenziata per danno alla reputazione aziendale…

Di fronte a tutto questo, i negazionisti raccontano la storia di una azienda affamata, anziché bulimica e dissipatrice, attaccata dall’esterno, anziché bacata nel suo interno, nella sua stessa natura “pubblica”, che a Roma significa alla mercé di tutti quelli che esercitino un qualunque potere. E i politici fiancheggiatori rispondono con il solito refrain del “no al privato”, con un ribaltamento classico della politica italiana, dove un’alternativa non sperimentata funziona sempre da spauracchio e foglia di fico di un fallimento sperimentatissimo e conclamato.

Il referendum promosso da Radicali italiani e da Mobilitiamo Roma, dunque, non è un referendum contro il monopolio del servizio pubblico di trasporto, ma contro il monopolio di ATAC sul sistema di potere della Capitale. Chiede di mettere a gara la gestione di autobus e metropolitane, ma chiede in primo luogo di scoperchiare e bonificare quello che negli anni è diventata una stazione di consensi, di posti, di commesse e di relazioni e dunque un vero “potere forte” della politica romana.

Non è un caso che, a parte +Europa, non ci sia un solo partito nazionale a essersi ufficialmente schierato per il Sì e tutti i politici romani di peso si siano ben guardati dal prendere posizione a favore del referendum e lavorino perché la diserzione delle urne rinvii il redde rationem. Non solo la Meloni o Di Battista, ma anche Zingaretti (malgrado nel PD si sia aperta qualche breccia, che però ha avuto una dimensione di mero dibattito interno e non di proiezione esterna). ATAC non si tocca, malgrado non funzioni, perché a suo modo “funziona”. Sta in piedi semplicemente tagliando in modo selvaggio i chilometri previsti e pagati dal contratto di servizio, ma rimane un feticcio ideologico e continua a rappresentare un serbatoio di voti e di consensi e in prospettiva nuovamente di posti.

Il referendum è eroico perché prova a far entrare l’Europa a Roma o per meglio dire a far rientrare Roma in Europa. Chiede di usare per l’affidamento una procedura aperta e concorrenziale che la normativa europea ha reso, almeno culturalmente, “raccontabile” anche in una realtà impregnata dell’eccezionalismo italo-romano: “sì la gara in teoria è giusta, ma qui è diverso…”.

Il referendum chiede inoltre all’amministrazione capitolina di uscire da questo velenoso trade off tra governo e consenso, per cui o si governa la città o si prendono i voti e quindi la popolarità è il crisma del non governo e il successo l’altra faccia del fallimento. È una quadratura del cerchio ormai impossibile, semplicemente perché sono finiti i soldi. Il debito di Roma, accanto al debito di ATAC, è il monumento all’insostenibilità finanziaria e morale di questo modello.

Il terzo luogo, il referendum implica che, anche per Roma, il benchmark del trasporto pubblico locale sia quello delle altre grandi metropoli europee, forse meno difficili della Capitale, ma in grado di rappresentare per essa un riferimento. Perché dire che Roma non è Parigi non può significare, come ormai significa, che a Parigi i servizi devono funzionare, mentre a Roma possono anche non funzionare.

La riluttanza delle forze politiche di opposizione a usare il referendum in funzione anti-Raggi dà però la misura di quanto sia profonda e consustanziale il legame del potere romano con ATAC e con le sue logiche. Il che rende questo referendum “impossibile” ancora più meritorio e necessario.