La sagra della demagogia o un’occasione utile per riflettere sul rapporto tra Stato e contribuente e quello tra Nord e Sud del Paese? Il referendum che si terrà il 22 ottobre in Lombardia e Veneto costerà fino a 50 milioni di euro ai bilanci delle due regioni e condizionerà il dibattito pubblico nazionale. Purtroppo le premesse non sono le più rosee. Vediamo perché.

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Secondo l’articolo 116 della Costituzione, oltre alle materie di loro competenza legislativa esclusiva, le regioni possono chiedere allo Stato “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 (cioè le cosiddette competenze concorrenti) e alcune materie di competenza esclusiva statale (l’organizzazione della giustizia di pace, le norme generali sull’istruzione e la tutela dell’ambiente e dei beni culturali). Tali ulteriori competenze possono essere attribuite con legge dello Stato, approvata a maggioranza assoluta dei componenti e su iniziativa della regione interessata.

Nulla vieta, ovviamente, che una regione voglia ricevere un forte mandato popolare rispetto alla richiesta allo Stato di una maggiore autonomia legislativa, e dunque far precedere la richiesta di autonomia da un referendum. Ma cosa esattamente stanno chiedendo Lombardia e Veneto? Nulla di specifico, solo una generica richiesta di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, come si legge d’altronde nel testo dei due quesiti:

Volete voi che la Regione Lombardia, in considerazione della sua specialità, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione e con riferimento a ogni materia legislativa per cui tale procedimento sia ammesso in base all’articolo richiamato?

Vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?

C’è forse bisogno di un referendum “confermativo” di una prerogativa costituzionale delle regioni? Altro sarebbe stato se le due amministrazioni regionali avessero sottoposto ai cittadini due piani specifici e dettagliati di competenze delegate che intendevano farsi attribuire, con le rispettive risorse. In questo modo ai cittadini sarebbe stata offerta una proposta concreta, della quale poter valutare i pro e i contro. Se, ad esempio, la Regione Lombardia avesse richiesto una specifica competenza allo Stato – chiedendo per questa una quantità di risorse pari a quanto attualmente l’amministrazione centrale spende in Lombardia per quella determinata materia – come avrebbe fatto la politica nazionale di maggioranza e opposizione a mettersi di traverso?

Purtroppo, la genericità del quesito pare studiata ad arte per non impegnare troppo i proponenti – nello specifico le maggioranze di centrodestra guidate da Roberto Maroni e Luca Zaia – e consentire loro una campagna demagogica simil-indipendentista, giocata sulla rivendicazione delle tasse che “restano sul territorio” e sulla contrapposizione con il governo centrale. Vinceranno i SÌ, a valanga, perché chi mai non vuole più autonomia per le virtuose e dinamiche Lombardia e Veneto? Chi non vorrebbe pagare meno tasse? Peccato che la Costituzione italiana non preveda un aumento dell’autonomia fiscale per finanziare le competenze trasferite, che quindi potrebbero esserlo solo grazie a eventuali maggiori trasferimenti da parte dello Stato.

L’esito referendario scontato è destinato a restare una vittoria sulla carta, una mera pre-campagna elettorale in vista delle nuove elezioni politiche e regionali del 2018. Di effetti pratici ce ne saranno ben pochi, perché è altamente improbabile che entro la fine della legislatura il Parlamento italiano possa approvare una legge di devoluzione di competenze alle due regioni. Qualunque sia poi l’esito delle prossime elezioni, il quadro muterà sensibilmente e i due referendum rischiano di passare agli annali come inutili, se non dannosi.

Eppure sarebbe molto utile inaugurare, o meglio riprendere, una seria discussione sull’autonomia delle regioni italiane, sulle loro performance politico-amministrative, sulla loro efficienza nell’uso delle risorse pubbliche. Costituzionalmente parlando, l’Italia si è dotata dal 2001 di un regionalismo sbilenco, paralizzante e fiscalmente irresponsabile: le regioni spendono e spandono, ma le risorse le raccoglie lo Stato centrale, così che i cittadini-elettori non riescono davvero a percepire il legame tra le tasse che versano a un livello di governo e le spese erogate da un altro. Le tante competenze legislative esclusive e concorrenti delle regioni rappresentano spesso un potere di blocco, una resistenza al cambiamento e all’innovazione, anziché un meccanismo virtuoso di competizione tra territori.

Abbiamo chiamato “federalismo” la sua totale negazione. Fallito anche il tentativo di abolire le competenze concorrenti (con il referendum costituzionale del 2016 che ha bocciato la cosiddetta riforma Boschi), l’Italia avrebbe oggi bisogno di riaprire il cantiere delle autonomie, perché solo una autentica responsabilità fiscale dei diversi livelli di governo può scongiurare nel medio-lungo periodo il rischio di un default finanziario. Abbiamo migliaia di comuni a un passo dal dissesto, con bilanci ingolfati di crediti non esigibili e di debiti verso fornitori. Le regioni non sono messe meglio, e come gli enti locali hanno nel corso degli ultimi decenni pasticciato e giocato a fare gli imprenditori, costituendo un ingarbugliato e inestricabile groviglio di società partecipate e controllate, che fungono da longa manus della politica e da sistemi di elusione delle stringenti regole sull’assunzione del pubblico impiego.

Tra tutte le ferite aperte, la frattura tra Nord e Sud del Paese è ormai in cancrena. Le due regioni interessate al referendum del 22 ottobre sono le uniche, insieme all’Emilia Romagna, per le quali la “spesa pubblica regionalizzata” – cioè il complesso della spesa pubblica statale erogato nello specifico territorio della regione, al netto dunque delle spese non regionalizzabili – è inferiore al 10 per cento del PIL, secondo i dati del MEF relativi al 2015 (Lombardia 6,28%, Veneto 9,14%, Emilia Romagna 8,27%). Nella parte alta della classifica troviamo, manco a dirlo, le regioni della parte bassa dello stivale: Calabria 26,82%, Sicilia 25,95%, Campania 21,39%. Fatta eccezione per le regioni a statuto speciale dell’arco alpino, la spesa pubblica regionalizzata sembra essere in funzione della latitudine. Con quali risultati? Con quali cambiamenti nel tempo?

Qualsiasi indicatore si assuma, descrive un Paese duale, dove la spesa pubblica del Mezzogiorno funge da anestetizzante o da narcotico di una situazione insostenibile. Cosa si può obiettare a chi vorrà usare il referendum del 22 ottobre per sollevare ancora la “questione settentrionale”, il dramma di un pezzo d’Italia costretto a competere con il mondo ma zavorrato dai suoi obblighi di “solidarietà fiscale” nei confronti di un Sud che non accenna a fare tesoro di decenni di sussidi e assistenza? Si dovrà dire la verità agli elettori lombardi e veneti, una verità che né il centrodestra che governa le regioni né il centrosinistra (il PD ha annunciato il voto favorevole ai referendum, sperando di depotenziarli) sembrano interessati a sostenere: i due quesiti alimenteranno invece aspettative che nessuno ottempererà.

Finita la festa referendaria, è concreta la possibilità che i problemi restino intatti, ogni giorno più vivi e crudi. Ce ne occuperemo mai seriamente?

@piercamillo