L’Unione, pur essendo complessivamente la seconda 'potenza' al mondo per spesa militare, spende in modo inefficiente, per un’evidente assenza di cooperazione. Oltre l’80% degli appalti e oltre il 90% di ricerca e tecnologia sono a livello nazionale. Per favorire una maggiore integrazione la Commissione Ue ha istituito un Fondo, che può garantire un formidabile impulso per le imprese italiane e rappresentare un catalizzatore per una forte industria europea della difesa.

Rosa cabina

La buona notizia è che la Commissione europea ha istituito un Fondo europeo per la difesa: è passata dal delineare un ambizioso, quanto teorico, Piano europeo in materia di difesa, varato il 30 novembre 2016 con la Comunicazione al Parlamento europeo 950 final, a metterci i soldi e la faccia, con il documento COM(2017) 295 final, con il dichiarato fine di aiutare gli Stati membri a spendere efficacemente le loro risorse, riducendo le duplicazioni nelle commesse militari.

Non è poi così strano che si sia deciso, nel sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma, di ripartire da quella che era sembrata una necessità già ai padri fondatori, a cominciare da Jean Monnet, cioè cooperare militarmente in Europa al fine di preservare la pace dopo secoli di conflitti.

Non ripercorriamo in questa sede gli strappi politici che hanno portato i membri dell’Unione in direzioni diverse, ma certo si può capire come l’elevato livello di conflitti e instabilità che hanno investito l’Europa in questi ultimi anni abbia spinto opinione pubblica e forze politiche a concentrarsi sulla sicurezza ad ampio spettro.

L’Unione, pur essendo al secondo posto nel mondo per spesa militare, sconta una grande frammentazione. I sistemi d’arma, ad esempio, sono 178 a fronte dei 30 degli Stati Uniti, che mantengono una supremazia sia per quanto concerne le risorse impiegate che per la capacità innovativa. Peraltro i dati devono essere comparati anche con altri Paesi, primo fra tutti la Cina, che, secondo alcune stime del SIPRI, si piazza ai primi posti per spese nel settore della difesa e rappresenta un competitor che investe in innovazione tecnologica e, come Giappone e Corea del Sud, in dual technologies.

I 200 miliardi di euro spesi dai Paesi europei nel 2015 sono caratterizzati da livelli e qualità insufficienti degli investimenti nello sviluppo e nell’acquisizione di capacità future. La cosiddetta “non-Europa della sicurezza e della difesa comuni” comincia a non essere sostenibile in una situazione di crisi e di equilibri geostrategici mutati.

Il tema della difesa comune ha una valenza politico-istituzionale, tanto più dopo la Brexit, visto che il Regno Unito era il principale ostacolo a un progetto di difesa comune, ma ha anche risvolti sul piano economico e tecnologico, in parte dettati dalla stessa ragione, visto che la Gran Bretagna nel 2015 ha speso, da sola, circa 56 miliardi di dollari nel settore della difesa, che equivalgono ad una spesa in percentuale sul PIL del 2%.

L’Italia, come sappiamo, attestava la spesa per la difesa intorno all’1.3% nel 2015, insieme alla maggior parte dei Paesi aderenti all’Alleanza atlantica, motivo per cui la dichiarazione congiunta UE-NATO, adottata a margine del vertice NATO dell’8 e 9 luglio 2016 in Polonia, si è concentrata proprio sul rafforzamento della cooperazione in materia di sicurezza e difesa. Solo Estonia, Grecia, Polonia e Regno Unito hanno raggiunto l’obiettivo di spesa della NATO, fissato nel vertice del 2014 in Galles al 2% del PIL.

Peraltro, la contrazione dei bilanci della difesa nei Paesi europei ha prodotto l’effetto di un minor livello di cooperazione rispetto a vent’anni fa. Si pensi solo al progetto EFA di fine millennio che si è andato ridimensionando in pochi anni.

La Commissione europea ha fotografato la situazione: gli Stati membri non cooperano abbastanza, poiché oltre l’80% degli appalti e oltre il 90% di ricerca e tecnologia sono a livello nazionale, e ne ha tratto le seguenti conclusioni: uno scarso coordinamento nella pianificazione della difesa comporta un uso inefficiente del denaro dei contribuenti, inutili duplicazioni e una disponibilità non ottimale delle forze di difesa. Quasi nulla la condivisione dei rischi e dei costi.

Questo vuoto lo vuole riempire il Fondo europeo per la difesa, con meccanismi di finanziamento congiunti, che dovrebbero consentire una transizione strutturale verso una maggiore cooperazione nel settore della difesa.

Il coordinamento delle decisioni di investimento richiede tuttavia una definizione comune delle esigenze e delle priorità, che rimangono di competenza degli stati membri, ma che in prima battuta sono state identificate nei sistemi aerei a pilotaggio remoto (droni), nella capacità di rifornimento in volo e nella comunicazione satellitare e difesa cibernetica.

Il ciclo industriale diventa il focus: dalla ricerca allo sviluppo di prototipi, fino all’acquisizione di capacità di difesa. L’intenzione è una maggiore efficienza nella spesa nazionale per la difesa; l’ottimizzazione dell’innovazione attuata su scala più ampia ridurrebbe il rischio di duplicazioni, favorirebbe l’interoperabilità tra forze armate e promuoverebbe una maggiore standardizzazione dei materiali.

Per questa ragione il Fondo europeo per la difesa mira a fornire gli incentivi necessari ad ogni livello del ciclo industriale. La misura principale del suo successo consisterà pertanto in un aumento significativo della percentuale di progetti di cooperazione nel settore della difesa rispetto alla spesa complessiva per la difesa. Il Fondo deve contribuire a sviluppare abilità tecnologiche e fornire incentivi per costruire catene di approvvigionamento transfrontaliere integrate e competitive.

Le possibili complementarietà con l’uso civile e i corrispondenti programmi europei di sostegno civile saranno esaminati in tutto il ciclo di programmazione e attuazione. In tal modo sarà garantito l’uso più efficiente nonché la complementarietà delle risorse europee per la ricerca, l’innovazione e gli sforzi di attuazione sia a livello civile che militare.

Per il nostro Paese la sfida è assolutamente appetibile: già quest’anno l’Unione pubblicherà tre bandi, avvalendosi dell’Agenzia Europea per la Difesa (EDA), per un totale di 25 milioni di euro, inerenti i sistemi automatici di sorveglianza militare in mare, le strategie di protezione delle truppe di terra e le previsioni tecnologiche nell’ambito della difesa.

Queste aree di sviluppo sono assolutamente alla nostra portata e potrebbero coinvolgere la galassia di piccole e medie imprese che nel nostro Paese sono purtroppo concentrate più su settori produttivi low-tech.

La Commissione ha individuato altre due fasi ma è evidente che la prima è la più critica: se non dovesse avere successo, se non si dovessero raggiungere risultati adeguati in quanto a risposta delle aziende, è molto probabile che non si passerebbe alle fasi successive, che la Commissione valuta in una mobilitazione di circa 5 miliardi di euro l’anno, sulla base di contributi degli Stati membri, che sarebbero esclusi dal calcolo del deficit di bilancio ai sensi del Patto di stabilità e crescita, e di finanziamenti dell’Unione europea.

Se vogliamo fare due conti, ricordiamoci che: complessivamente, in contributi diretti, indiretti e indotti, le imprese del settore AD&S (Aerospazio, Difesa e Sicurezza) nel nostro Paese generano 11.6 miliardi di euro di valore aggiunto, pari allo 0.8% del PIL, e che 1 euro di valore aggiunto in questo settore produce altri 1.6 euro nell’economia; inoltre, ognuno di questi occupati sostiene altri 2.6 posti di lavoro in Italia e tali imprese investono in innovazione, ricerca e sviluppo circa 1.5 miliardi di euro, pari a oltre il 12% di tutta la spesa in R&D sostenuta dall’impresa italiana.

È evidente come il Fondo europeo per la difesa possa costituire un formidabile volano per le imprese italiane ma rappresenti anche un catalizzatore per una forte industria europea della difesa, considerato che dal 2020 la Commissione vorrebbe dotare tale Fondo di 500 milioni di euro l’anno, ma che già alla fine del 2019 dovrebbe aver messo sul piatto circa 90 milioni di euro.

Tutto questo ad integrazione della cooperazione con la Nato, come sottolineato nella conferenza stampa di presentazione del Fondo europeo per la difesa anche dall’Alto rappresentante e Vice presidente della Commissione europea, Federica Mogherini.

Il futuro programma di ricerca nel settore della difesa si concentrerà su attività di ricerca mirate a sostegno dello sviluppo di prodotti connessi alla difesa e di tecnologie innovative. Il programma dovrebbe essere basato sulle capacità e dovrebbe concentrarsi sulle tecnologie critiche di difesa nonché sulla ricerca esplorativa e innovativa con il potenziale per rafforzare la leadership tecnologica dell’industria europea della difesa. Gli Stati membri individueranno, con l’aiuto dell’EDA, le priorità in termini di capacità di difesa e le priorità in materia di R&T. La Commissione ne terrà conto nel futuro programma di ricerca nel settore della difesa. I progetti saranno scelti avvalendosi di esperti e secondo criteri prestabiliti, quali l’eccellenza e l’impatto, e di norma richiederanno una collaborazione transnazionale. Il futuro programma dovrebbe favorire un’ampia partecipazione dei diversi attori, comprese le PMI.

Tuttavia, in questo tripudio di ottimismo, l’importanza che la Commissione dà alla complementarietà con le altre politiche dell’UE in materia di sicurezza potrebbe infrangersi proprio sul fiore all’occhiello di qualunque industria high tech: la sicurezza cibernetica.