La giurisprudenza costituzionale in materia elettorale rischia di rappresentare un fattore di instabilità permanente del quadro politico, a causa sia dell’impianto proporzionale delle normative residue, che favorisce la (ri)frammentazione dell’offerta elettorale, sia della natura necessariamente asistematica degli interventi della Corte, che potrebbe consegnare discipline elettorali irragionevolmente monche. Ciò perché si è data una risposta giurisdizionale a questioni intrinsecamente politiche, la cui soluzione spetta unicamente agli elettori e ai partiti.

Canale Consulta

Come è noto, la Corte costituzionale (sent. n. 35/2017) ha giudicato parzialmente illegittimo il c.d. Italicum, ritenendo incostituzionale:
- il ballottaggio, così come era stato concretamente configurato nella citata legge, e quindi non escludendo la possibilità di future discipline elettorali che lo prevedano;
- la previsione secondo la quale il capolista pluricandidato poteva scegliere, con la più assoluta discrezionalità, la circoscrizione nella quale essere dichiarato eletto, facendo sopravvivere il criterio normativo residuo del sorteggio con l’espresso auspicio che il legislatore intervenga per indicare un criterio obiettivo più soddisfacente.

La Corte ha invece ritenuto costituzionalmente conforme:
- il premio di maggioranza al primo turno, poiché subordinato al raggiungimento di una predefinita soglia (40%), ritenuta ragionevole e congrua, secondo quanto aveva stabilito la Corte nella precedente sentenza n. 1/2014 sul c.d. Porcellum;
- i capilista bloccati, poiché la loro indicazione è anche espressione della posizione assegnata ai partiti politici dall’art. 49 Cost., quali associazioni che consentono ai cittadini di concorrere con metodo democratico a determinare, anche attraverso la partecipazione alle elezioni, la politica nazionale.

L’esito del giudizio costituzionale non ha destato particolari sorprese, poiché era chiaro dopo il referendum del 4 dicembre che l’Italicum era ormai avviato su un binario morto. Inoltre, è stato accolto favorevolmente dalla generalità degli attori politici, poiché è una sentenza che, al contempo:
- delinea, insieme alla normativa residua per il Senato determinata dalla precedente sent. n. 1/2014, un impianto elettorale di stampo proporzionale, che potrebbe favorire un riassetto complessivo dell’offerta elettorale, come peraltro testimonia la recente vicenda della “scissione” del PD, inimmaginabile in un differente contesto elettorale;
- non impone soluzioni elettorali costituzionalmente predefinite - e difficilmente avrebbe potuto farlo – lasciando la possibilità di future discipline elettorali maggioritarie e/o premiali, come peraltro è, almeno in potenza, già la stessa legge elettorale per la Camera;
- esorta timidamente il legislatore a evitare discipline elettorali che ostacolino la formazione di maggioranze politiche non omogenee.

Sembrerebbe quindi una sentenza capace di soddisfare tutti i palati, anche in virtù di una solida ed elegante tecnica redazionale. Non è, infatti, un caso che alcuni dei commenti più entusiastici siano venuti, singolarmente, da sostenitori della tesi della perfetta conformità costituzionale dell’Italicum, sulla base dell’argomento che “tecnicamente” si sia trattato di un’incostituzionalità sopravvenuta. Una tesi che ovviamente coglie il senso politico di una disciplina elettorale politicamente defunta con il referendum, ma che giuridicamente non è sostenibile, essendo casomai vero il contrario: l’Italicum nasce chiaramente viziato rispetto all’assetto costituzionale vigente, sotto la convinzione (o più correttamente la speranza) di una sua conformità costituzionale postuma, subordinata all’eventuale entrata in vigore della (fallita) riforma costituzionale Boschi-Renzi.

Però proprio alla luce del generale consenso vale la pena interrogarsi più criticamente sulla sentenza e sul recente orientamento della Corte in materia elettorale, esponendo, in modo necessariamente sintetico, sette diversi profili problematici.

1) La sentenza fa giustizia delle perentorie tesi che hanno:

- affermato la piena corrispondenza tra l’Italicum e il giudicato costituzionale sul Porcellum, malgrado i fondati dubbi, peraltro espressi da più parti in dottrina, sulla natura sostanzialmente elusiva del giudicato costituzionale di un turno di ballottaggio al termine del quale comunque assegnare il premio di maggioranza, a prescindere dal conseguimento di una soglia predefinita di voti;
- taciuto sulla palmare incompatibilità della nuova disciplina con il vigente bicameralismo paritario, evidentemente confidando nel futuro effetto sanante della riforma.

D’altronde, all’indomani della sua entrata in vigore, scrivevamo su queste pagine che: “l’Italicum è l’antefatto di un nuovo sistema istituzionale, senza il quale non solo non sembra avere alcuna utilità, ma rischia addirittura di diventare dannoso, potendo determinare sistematicamente una disomogeneità politica delle due Camere, con ciò che ne consegue”. E ciò chiama in causa l’operato del capo dello Stato, forse allora ancora in fase di rodaggio, ma anche larga parte della dottrina e della stampa, troppo spesso condizionate nei loro giudizi da un opportunistico conformismo di maniera che non sempre favorisce l’esercizio del necessario vaglio critico delle decisioni degli organi apicali della Repubblica.

2) La sentenza conferma il discutibile orientamento sull’accertamento della rilevanza in materia elettorale, grazie all’artificio di un’azione di accertamento che ha l’unico vero fine di far sollevare la questione di legittimità costituzionale, rendendo fittizio il carattere incidentale del giudizio di legittimità costituzionale. Così facendo, viene riconosciuta, in materia elettorale, sostanzialmente un’azione generale e diretta. Ciò peraltro può determinare due conseguenze negative:

- il ricorso da parte dei ricorrenti ad azioni massive, come in questo caso, alla ricerca di un qualunque giudice a quo, determinando comunque un aggravio, anche minimo, del contenzioso civile;
- un maggiore lassismo interpretativo dei giudici remittenti indotti dalla percezione che il loro eventuale rigore potrebbe essere vanificato dall’opera di qualche tribunale che comunque sollevi la questione proposta, anche per la suggestione di vedere una propria decisione al centro del dibattito scientifico e pubblico.

3) Sostanzialmente, la sentenza introduce in materia elettorale un sindacato di legittimità costituzionale preventivo e astratto, ritenendo sufficiente l’entrata in vigore delle disposizioni impugnate, anche se queste non sono mai state applicate. A prescindere dall’esattezza tecnica di questa affermazione, sembra se ne sottovalutino le possibili gravi conseguenze. Infatti, adesso la Corte rischia di essere chiamata in causa preventivamente nell’immediatezza dell’approvazione di ogni nuova disciplina elettorale ovvero di una sua sentenza sulla normativa residua, e successivamente dopo ogni svolgimento di elezioni politiche. E dovrebbero essere facilmente intuibili le possibili criticità di questo contesto, soprattutto se si tiene debitamente conto che le due sentenze elettorali hanno riguardato legislazioni politicamente morte (Italicum) o comunque moribonde (Porcellum). Ma cosa accadrà quando saranno sollevate robuste questioni di legittimità costituzionale su legislazioni elettorali politicamente vive e vegete o “create” dalla stessa Corte? La Corte ritornerà sui suoi passi sull’ammissibilità di questo tipo di questioni o accetterà di entrare nel vivo del conflitto politico? C’è quindi il fondato timore di vedere la Corte sempre più spesso impegnata in giudizi ad elevata conflittualità politica, con tutti i rischi che ne possono conseguire.

4) La sentenza, probabilmente per questioni tecniche connesse ai parametri costituzionali evocati dai giudici rimettenti, non centra gli aspetti problematici della composizione ibrida dei candidati, cioè la contemporanea presenza di un capolista, scelto dal partito, eletto di diritto se matura un seggio per la lista e degli altri candidati che invece saranno eventualmente eletti sulla base delle preferenze nell’ipotesi in cui la lista abbia più di un seggio o il proprio capolista sia eletto in un’altra circoscrizione. L’argomentazione della Corte sarebbe anche condivisibile se l’intera lista fosse bloccata, ipotesi costituzionalmente comunque possibile a determinate condizioni (liste brevi e collegi piccoli), ma trascura completamente che la vigente disciplina ibrida determina gravi diseguaglianze tra le due categorie di candidati. Peraltro ciò evidenzia che l’aspetto più problematico delle discipline elettorali di questa tormentata stagione ha riguardato l’effettività del rapporto tra corpo elettorale ed eletti, piuttosto che gli aspetti macroelettorali (premio di maggioranza, turno di ballottaggio ecc.), perché in mancanza di questo rapporto si ha un deciso peggioramento della qualità democratica della nostra vita pubblica, come testimoniano le vicende parlamentari della legislatura vigente.

5) Il monito della sentenza (secondo il quale la Costituzione esige che, al fine di non compromettere il corretto funzionamento della forma di governo parlamentare, i sistemi elettorali adottati non ostacolino, all’esito delle elezioni, la formazione di maggioranze parlamentari omogenee) evidenzia un altro fattore di rischio soprattutto nell’ipotesi di un giudizio preventivo e astratto, cioè quello di mimetizzare sotto le vesti dell’argomentazione giuridica delle valutazioni politiche e soggettive. Infatti, non si comprende come sia possibile ricondurre ad una valutazione giuridica istituti ontologicamente espressione della massima discrezionalità politica - come, appunto, l’omogeneità politica di una possibile futura maggioranza - e farlo addirittura in un momento anteriore allo svolgimento delle elezioni. Peraltro la stessa disciplina costituzionale non sembra imporre il vincolo della necessaria omogeneità delle rappresentanze delle due Camere, considerato che prevede significative differenze nei rispettivi corpi elettorali, nonché originariamente addirittura una loro differente durata. In definitiva, il criterio dell’omogeneità politica della maggioranza attiene alla valutazione politica dei partiti e degli elettori. Al riguardo, si può fare riferimento a due casi analoghi risolti in modo opposto in via politica. Si pensi, infatti, alla:

- traballante maggioranza al Senato del II Governo Prodi, dipesa non tanto dalla manifesta irragionevolezza della disciplina dei premi regionali - che potevano essere considerati espressione di un’attuazione parlamentare del regionalismo e che in altre occasioni ha avuto come esito maggioranze omogenee in entrambi i rami del Parlamento - quanto piuttosto dal rifiuto di considerare un quasi pareggio il risultato elettorale e dare conseguentemente vita ad un governo di c.d. grande coalizione, come a suo tempo era stato proposto da Berlusconi;

- vigente legislatura, paradigmatica della possibile divergenza tra la valutazione giuridica e quella politica dei meccanismi elettorali, nella quale l’impossibilità di dare vita ad un governo composto dalle forze politiche che si erano aggiudicate il premio alla Camera è stata risolta con l’ampliamento politico della maggioranza, determinando addirittura uno dei più longevi e dinamici governi della storia repubblicana. Infine, non si può non evidenziare che la Costituzione prevede già la soluzione all’ipotesi di impossibilità di dare vita ad una maggioranza politica, ed essa non è l’accertamento di un’illegittimità della disciplina elettorale, bensì lo scioglimento anticipato delle Camere per ridare la parola all’unico vero giudice che può risolvere questo genere di problematiche: il corpo elettorale.

6) Un ulteriore elemento di criticità, troppo sottovalutato, riguarda la possibilità di andare a votare con la legislazione “di risulta”, che a nostro avviso evidenzierebbe una delle principali manchevolezze di quest’orientamento giurisprudenziale. Si fa riferimento alla circostanza che la Corte, in entrambe le sentenze, abbia ritenuto necessario e sufficiente verificare l’immediata applicabilità della normativa residua, al fine di evitare lacune in materie costituzionalmente obbligatorie, per potere dichiarare l’illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate. Ammesso, e non concesso, che effettivamente le due normative di risulta siano immediatamente applicabili, tale condizione non sembra sufficiente poiché non tiene debitamente conto del fatto che la legislazione elettorale ha una sua necessaria intrinseca sistematicità che mal si adatta ai poteri della Corte, i quali possono generare soltanto interventi parziali e per di più (quasi esclusivamente) demolitori. Ciò può comportare che la dichiarazione di illegittimità parziale di una disciplina elettorale finisca per far franare l’intera costruzione elettorale, nel senso di far sopravvivere una disciplina funzionante, ma che rischia di produrre effetti di maggiore incoerenza o irragionevolezza per il venir meno della visione sistematica che le faceva da presupposto. Pertanto la Corte, più opportunamente, avrebbe dovuto verificare un’ulteriore condizione per poter dichiarare un’illegittimità costituzionale in materia elettorale, cioè accertarsi rigorosamente non solo che la normativa residua fosse immediatamente (ed effettivamente) applicabile, ma che non fosse, a sua volta, manifestamente irragionevole e incostituzionale. Al riguardo, sarebbe utile presupporre ipoteticamente che le elezioni si svolgano con la normativa residua, senza fare affidamento su interventi del legislatore che per diversi motivi potrebbero mancare.

7) Infine, quest’orientamento giurisprudenziale rischia di danneggiare nel lungo termine l’autorevolezza della Corte. Si può, infatti, presumere che la Corte abbia sottostimato la concreta possibilità che si vada a votare con le normative residue. A prescindere dalla circostanza che tale evento potrebbe dimostrare come certe perentorie affermazioni sull’immediata applicabilità non siano del tutto esatte, si potrebbe assistere ad un esito elettorale confuso e problematico in virtù di logiche elettorali che sono state private della loro originaria sistematicità dalle decisioni della Corte, la quale potrebbe finire sul banco degli imputati di fronte al corpo elettorale per avere contribuito a provocare una situazione di caos politico-istituzionale.

Si può, infatti, osservare in conclusione che paradossalmente il tanto vituperato Porcellum, il quale probabilmente ha pagato al di là dei suoi demeriti la confessione pubblica da parte del suo ideatore delle sue originarie finalità e la sua conseguente qualificazione valoriale (“una porcata”), ha avuto tra gli effetti l’aggregazione in un unico partito delle due principali aree politiche (rispettivamente PD per il centro sinistre e PDL per il centro destra), mentre le sentenze elettorali della Corte stanno producendo una (ri)frammentazione del quadro politico coerente con la prevalente logica neoproporzionale.