Nel Vecchio Continente, negli ultimi decenni, si è assistito a un rafforzamento della dimensione comunitaria nell’indirizzare le grandi decisioni, senza che a questo si sia accompagnato il rafforzamento della legittimità democratica delle istituzioni europee. Ciò ha lasciato gioco facile a chi ha costruito una carriera politica sul refrain “è colpa dell’Europa”, ma la realtà, come spesso succede, è più complessa.

brusadelli Bruxelles sito

Accolta dal premier italiano con grande soddisfazione, come incontrovertibile prova della superiorità dell’Italicum nel garantire un “vincitore certo”, la situazione di stallo politico che in Spagna obbligherà probabilmente popolari e socialisti a una grande coalizione - o richiamerà gli elettori alle urne - presenta in realtà spunti più profondi di riflessione.

Anche un sistema elettorale ammirato fino a poco tempo fa come un solido mix fra esigenze maggioritarie e rispetto della rappresentanza ‘minoritaria’ (soprattutto in termini regionali), capace pertanto di garantire al Paese governi solidi e generalmente efficaci (Aznar, Zapatero, Rajoy) non ha retto ai profondi cambiamenti che la crisi economica e l’accelerazione delle dinamiche globali stanno rovesciando sui sistemi politici europei.

Come si era già potuto osservare dopo le ultime elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo nel giugno dello scorso anno, le antiche linee di faglia che per l’intero dopoguerra hanno delineato le appartenenze non solo prettamente partitiche o politiche, ma anche culturali e spesso estetiche - la destra e la sinistra, i conservatori e i progressisti, i liberali e i socialisti - non sembrano più essere in grado di raccontare le società del vecchio continente.

Anche nei decenni scorsi, è chiaro, esistevano segmenti minoritari che sfuggivano ai blocchi principali (non solo alle estremità, ma anche nel cosiddetto “centro”), e in ciascun contesto quelle grandi categorie venivano declinate in maniera più o meno differente (talvolta il “moderatismo” assumeva un tono più cattolico, o il “socialismo” si tingeva di un rosso più acceso), ma l’impianto - che trovava un riflesso e una giustificazione ultima in un sistema mondiale esso stesso bipolare, più ancora che nella composizione sociale del vecchio continente - reggeva.

Oggi, invece, fortissime spinte sia interne che esterne stanno squilibrando quella vecchia visione del mondo e della politica in cui l’Europa ha costruito il proprio benessere dal 1945 in poi. La prassi della große Koalition, inaugurata in Germania e Austria, non sembra più l’eccezione ma una normale modalità di organizzazione del governo. E le opposizioni anti-sistema, un tempo confuse e marginali, assumono un ruolo “di sistema”, come dimostrano fra gli altri il caso del Movimento 5 Stelle in Italia (anticipatorio di trend continentali, come spesso accade alle dinamiche italiane), del Front National in Francia, di Syriza e di Podemos in Grecia e Spagna, ma anche l’Ukip di Nigel Farage in Gran Bretagna.

In altre parole: i partiti che un tempo si combattevano all’interno del “vecchio” sistema scoprono, di fronte all’avanzata di forze politiche “esterne”, di essere accomunati proprio dal fatto di muoversi in quel vecchio sistema. A questo, nel rafforzare la tendenza a superare le categorie del passato, si somma un altro elemento da non sottovalutare: la consapevolezza che le scelte economiche, un tempo centrali nel discriminare tra le proposte politiche dei due blocchi, sono ormai sfuggite alla gestione esclusiva dei singoli Paesi. Il che non è né un bene né un male, ma è certamente un fatto.

In Europa, in particolare, si è assistito a un graduale, e ineluttabile, rafforzamento della dimensione comunitaria nell’indirizzare le “grandi” decisioni, senza che a questo si sia accompagnato il rafforzamento della legittimità democratica delle istituzioni paneuropee. Agli occhi di un elettorato sfiancato dalla crisi economica e sfiduciato dall’incapacità (e talvolta impossibilità) delle classi politiche di rispettare le promesse fatte in campagna elettorale, come accadeva nei bei tempi delle vacche grasse, è dunque comprensibile che la costruzione europea sembri dotata di un cuore quasi “cinese” (un potere tecnocratico e sfuggente, solo marginalmente toccato da dinamiche rappresentative) che lascia ai livelli locali, ovvero gli Stati membri, appena qualche briciola di autonomia. Non è così, o meglio non è del tutto così. E non dovrebbe essere così, soprattutto. Ma questo racconto fa comodo a molti, e chi potrebbe cambiarne il finale non lo fa, per miopia o per paura.

Alle forze di opposizione anti-sistema, è chiaro, il film del “Leviatano europeo” fa ormai da volano per rimpolpare il botteghino elettorale: il soviet di Bruxelles (a volte impersonato dalla Cancelliera Merkel, a volte diluito in un generico Complotto delle banche o in “poteri forti” senza volto), diviene così, nei comizi di Salvini, Grillo, Farage o Le Pen, il capro espiatorio delle colpe di chi per decenni ha scaricato debito sulle generazioni successive, incapace di prevedere che il riequilibrio dell’economia mondiale, con la crescita travolgente di attori un tempo marginali, avrebbe presto rinsecchito le riserve dell’Occidente.

Alla retorica grossolana si aggiunge poi un irritante paradosso. I novelli paladini della sovranità nazionale lamentano l’opacità delle istituzioni europee, ma dimenticano che se una democrazia continentale non ha ancora visto la luce, e se lo spazio decisionale comunitario resta troppo spesso avvolto dalle nebbie, ciò è stato dovuto anche alla pervicace opposizione dei cosiddetti “nazionalisti”, che oggi non a caso confluiscono nelle nuove piattaforme anti-euro, alla costruzione di un vero spazio politico unico europeo. E, paradosso su paradosso, dopo l’esplosione della minaccia terroristica, sempre loro - riscoperta una non meglio precisata “identità europea” di cui si fanno impavidi portabandiera - accusano l’Europa di essere troppo debole sul piano del coordinamento delle politiche militari e di sicurezza. La confusione aumenta, ma aumentano anche i voti, e va bene così.

Ma il racconto dell’Europa cattiva non è, purtroppo, patrimonio esclusivo di chi fa della lotta al “sistema” (a partire dal sistema comunitario, come si è detto) la propria ragione di esistenza politica. Anche tra chi del “sistema” è parte, ovvero capi di governo ed esponenti delle varie maggioranze, la tentazione di scaricare i propri limiti sul fantasma dell’Europa si fa spesso irresistibile. Non fa certo eccezione l’Italia, e dunque capita non di rado che,il dito dell’esecutivo punti in maniera critica (magari anche minacciosa) a una vaga “Europa” che impone scelte sbagliate e tortura gli Stati. Eppure le istituzioni europee sono, dal Consiglio alla Commissione, espressione più o meno diretta delle istituzioni (o dei partiti) dei singoli Stati, e non - a quanto si sappia - di ignote entità aliene.

E così, mentre chi dovrebbe lavorare per riempire lo spazio europeo con una coscienza politica unitaria e meccanismi democratici federali tace, per timidezza o per paura, e mentre disordinate forze nazionaliste sognano un ritorno alla “sovranità nazionale” che ci ha regalato secoli di conflitti continentali, i sistemi statali si indeboliscono e i loro sistemi politici collassano uno a uno, svuotati di potere, incapaci di delegare a un nuovo e più ampio spazio di sovranità le proprie competenze.

In altre parole: poiché le tendenze mondiali e la concorrenza delle nuove potenze rendono irrealistica l’idea di un ritorno alle piccole entità e identità del passato, la storia continuerà a consegnare alle deboli e impreparate istituzioni europee compiti sempre più gravosi, dalla ripartenza dello sviluppo economico alla gestione della sicurezza. E dunque a poco serve ristrutturare i sistemi politici interni o arricchire di meccanismi ingegnosi i sistemi elettorali nazionali: sarebbe forse più intelligente lavorare per far coincidere lo spazio decisionale (l’Unione e in generale la dimensione “comunitaria”) con lo spazio rappresentativo-democratico (oggi spalmato tra i singoli Stati).

Non che tutto sia perfetto, a Bruxelles e Strasburgo, questo va da sé. Ma, non potendola distruggere, occorrerebbe migliorare l’Europa, innanzitutto riconoscendone l’esistenza come “parte di sé”. Verrebbe insomma da dire che l’Europa si farà (e si sta facendo) comunque, con o senza gli europei. Meglio esserci, però.