Il quadro economico europeo e internazionale è stato interessato da importanti cambiamenti negli ultimi tempi. Il prezzo del petrolio è sceso, la BCE ha annunciato un ulteriore allentamento monetario sotto forma di quantitative easing (QE) e l'euro si sta svalutando. Quasi tutti gli osservatori economici nazionali, sulla scorta di questi elementi di novità, hanno aggiornato le previsioni di crescita. Ma si sono fatti prendere un po' la mano dall'ottimismo.

Petrolio scende

Gli esperti di congiuntura, gli stessi esperti che solo pochi mesi fa non vedevano alcun segnale di ripresa, ora sostengono che il 2015, per l'Italia, sarà lo spartiacque tanto atteso tra il buio della crisi e la ripresa dell'economia. Si fa un gran parlare di nuove prospettive di crescita per il nostro paese, di opportunità che aspettano solo di essere colte al balzo. Pare quasi che tra i centri studi economici di casa nostra si sia improvvisamente aperta una specie di gara a chi sprizza più ottimismo.

Scherzi a parte, sta di fatto che certe stime sono state spinte ai limiti del realismo. C'è chi sostiene, addirittura, che la crescita dell'economia italiana sarà abbondantemente sopra il 2 per cento per l'anno in corso e accelererà ancora il prossimo anno! Quale può essere il motivo di tanto ottimismo? Quello di iniettare fiducia in chi legge i rapporti di previsione? È possibile, ma dubito che tale operazione riuscirebbe nel proprio intento, date le condizioni reali quotidiane di imprese e famiglie italiane. Semmai, tutto ciò assomiglia a una operazione di comunicazione politica. Magari per correre in aiuto del governo, impegnato in questa fase a spargere ottimismo a destra e a manca.

I cambiamenti del quadro internazionale sono rilevanti, è vero. In "tempi normali", magari trent'anni fa, probabilmente avrebbero prodotto un impatto rapido, positivo e consistente sull'economia italiana (anche se non so quanto duraturo). Mi riferisco soprattutto al calo del prezzo del petrolio e alla svalutazione del cambio. Credo, invece, che nella situazione attuale gli effetti positivi sull'economia non saranno rapidi e nemmeno granché consistenti.

L'impatto suggerito da quasi tutti i modelli econometrici tradizionali, stavolta forse viene dato un po' troppo per scontato. A differenza di quanto sarebbe potuto accadere venti o trenta anni fa, prezzo del petrolio, QE, e svalutazione dell'euro non funzioneranno "come al solito". Questa volta le cose potrebbero andare in modo diverso, e l'ottimismo di certe previsioni potrebbe aprire la strada ad altrettante delusioni.

Nel pezzo di oggi mi occupo della questione più semplice: i motivi per cui non credo che il crollo della quotazione del petrolio sia la panacea di tutti i mali. Nei prossimi due pezzi, invece, ho intenzione di affrontare le altre due questioni, cioè i motivi per cui anche le speranze riposte sul QE e sulla svalutazione del cambio potrebbero essere eccessive.

Quando il prezzo del petrolio si riduce, tradizionalmente l'enfasi viene posta su due effetti. Da un lato si riducono i costi di produzione per l'industria nazionale, con ricadute positive sia sui prezzi di vendita dei prodotti, che diventano più competitivi anche a livello internazionale, sia sui margini di profitto delle imprese, che diventano più ottimiste e hanno più liquidità per investire. Dall'altro lato si determina un generale rallentamento dell'inflazione, per cui il "carrello della spesa" diventa più leggero per le famiglie, e favorisce un aumento dei consumi e della domanda interna.

In sintesi, la riduzione del prezzo del petrolio dovrebbe determinare un aumento della domanda, della produzione e del PIL. Ecco perché in questi giorni sentiamo continuamente ripetere il mantra: "cala il prezzo del petrolio quindi cresceremo di più". Questa è l'analisi "standard" proposta dal pensiero macroeconomico tradizionale. Ed è anche la risposta quantitativa che forniscono i modelli econometrici comunemente utilizzati dai centri studi e dagli osservatori economici.

Ma la realtà è sempre stata più complessa del pensiero macroeconomico e della meccanica dei modelli. Per giunta, a rendere ancora più complicate le previsioni, negli ultimi decenni, hanno contribuito tanto i cambiamenti nell'assetto strutturale dell'economia mondiale, quanto la situazione anomala che essa vive attualmente.

La crisi dura da quasi dieci anni e le cause che l'hanno prodotta sono ancora lontane dall'essere rimosse. Peraltro, non bisogna dimenticare che l'ostacolo principale al trasferimento delle riduzioni di prezzo dalla materia prima ai portafogli di famiglie e imprese è l'atteggiamento ormai famelico dello stato, che grava sull'economia con una tassazione sempre più pesante e distorsiva.

La risposta dei costi di produzione e più in generale dei prezzi alle quotazioni dell'oro nero è lenta, e soprattutto è molto parziale. Da noi non è come negli Stati Uniti, dove il calo del prezzo del petrolio è seguito da una riduzione percentuale quasi equivalente dei prezzi dei carburanti e dell'energia. Da noi i prezzi dei carburanti e dell'energia sono costituiti per oltre la metà da accise e altre imposte. Il costo della materia prima è una parte sempre più piccola del prezzo finale. Un prezzo che è sempre più rigido rispetto alle quotazioni internazionali.

Questo vuol dire che i costi di produzione si riducono solo in misura frazionaria rispetto alla riduzione delle quotazioni del petrolio. Anche l'effetto sul livello generale dei prezzi, sul reddito disponibile e sui consumi delle famiglie diviene molto meno marcato di quanto pensa chi ama prendere a esempio la storia di trent'anni fa. L'ipotesi di un "effetto reddito" positivo che rilancia i consumi è da escludere anche perché siamo già con l'inflazione a zero. Ed è la stessa BCE che cercherà di impedire all'inflazione di diventare ancor più negativa.

In altri termini, se la BCE ha deciso di far svalutare l'euro, il motivo principale è proprio quello di controbilanciare la riduzione del prezzo del petrolio, per impedire che essa si trasferisca, seppure molto parzialmente, ai prezzi finali accelerando la caduta verso una deflazione ormai incombente.

In poche parole, non solo la riduzione delle quotazioni del petrolio si trasferisce solo parzialmente ai costi e ai prezzi interni. Ma è probabile che buona parte di quella stessa riduzione venga bloccata "a monte" dalla svalutazione dell'euro.

Ma non è finita qui. C'è ancora un altro aspetto da considerare. Negli ultimi dieci anni abbiamo assistito a una gigantesca bolla del petrolio. La crescita senza precedenti del prezzo dell'oro nero è stata un vero e proprio eldorado per i grandi paesi produttori. Gli introiti valutari dell'export hanno consentito loro di importare sempre più, in particolare dall'Europa e dal Nord America. E i cospicui introiti fiscali prodotti dalla vendita del petrolio hanno finanziato la crescita della spesa pubblica, spingendo la domanda interna e la crescita del PIL. Inoltre, quotazioni così alte hanno incentivato enormemente gli investimenti nel settore petrolifero, rendendo convenienti anche progetti con costi di estrazione elevati.

Ora, il crollo del prezzo del petrolio e il peggioramento delle ragioni di scambio produrrà quasi sicuramente un rallentamento della crescita in questi paesi. Infatti, la riduzione degli introiti fiscali prima o poi imporrà tagli alla spesa pubblica. E un prezzo inferiore a 50 dollari al barile per un periodo prolungato renderà anti-economici e non più sostenibili molti investimenti nel settore estrattivo. Buona parte dei paesi produttori ha un break even point intorno ai 100 dollari al barile.

Se la crescita in questi paesi rallenterà e si troveranno a corto di valuta estera, si ridurrà anche la loro propensione a importare. A risentirne saranno i partner commerciali. Europa e Nord America in prima fila. A guardare i numeri non si tratta proprio di una bazzecola. Perché il PIL e le importazioni dei paesi produttori di petrolio rappresentano circa il 12 per cento del PIL e delle importazioni mondiali.

Volendo essere pessimisti fino in fondo, se così stanno le cose, non solo le nuove stime di crescita sono troppo ottimistiche, ma non è facile nemmeno dire quale sarà l'effetto netto del crollo delle quotazioni del petrolio. Perché da un lato gli effetti positivi collegati alla riduzione del costo della materia prima, a conti fatti, potrebbero rivelarsi poca cosa. Dall'altro lato, invece, potrebbero essere ben più pesanti le ricadute negative prodotte dal tracollo delle economie dei paesi produttori di petrolio, che fino a oggi hanno tratto enormi vantaggi dalla bolla sul prezzo dell'oro nero e che ora versano in obiettive difficoltà.