Perché è il momento di cacciare la Grecia dall'Euro
Istituzioni ed economia
Il netto successo della sinistra radicale del partito Syriza di Tsipras alle elezioni per il rinnovo del parlamento greco deve far suonare una sveglia nella politica continentale e mette i leader europei di fronte a scelte politiche importanti. Intendiamoci, il cambio della guardia ad Atene modifica la politica greca verso l'Europa più in termini di toni e di intensità che in termini qualitativi e di principio.
I governi precedenti di Nuova Democrazia e del PASOK tutto sono stati meno che un esempio di responsabilità di bilancio. Anzi, sono stati responsabili del completo dissesto dei conti pubblici greci, dell'esplosione del debito e di una gestione del consenso interamente basata sulla spesa pubblica e sul clientelismo.
E, dall'emergere della crisi del debito, l'operato di tutti gli esecutivi ellenici è stato quello di elemosinare il bailout ai tavoli europei, "restituendo" in cambio riforme politiche ed economiche molto limitate – che niente avevano a che fare, ad esempio, con quelle "vere" messe in atto dai paesi dell'Europa dell'Est all'indomani della caduta del muro di Berlino.
Tsipras, dal canto suo, non è un "euroscettico", non è venuto ad annunciare che i greci faranno da sé, ma è semplicemente venuto a battere più forte i pugni sul tavolo ed a chiedere all'UE più soldi per sostenere le proprie politiche di spesa – quindi, sostanzialmente, a continuare, in modo più "vigoroso", sulla strada di chi l'ha preceduto.
Tuttavia, il "chiagni e fotti" di Samaras, Papademos o Papandreu era politicamente più fine di quello di Tsipras. I premier greci sono stati abili finora a dosare crescenti richieste assistenziali e "segnali" da mandare a Bruxelles sul sincero impegno dei greci ad implementare quanto necessario a restare nel perimetro dell'eurozona.
Questo tipo di approccio faceva inevitabilmente breccia all'interno di un mainstream politico europeo che non poteva sottrarsi alla solidarietà verso i greci, se non ripudiando implicitamente il sogno ideologico dell'Europa unita.
Dalle parti di Berlino o di Helsinki si sapeva benissimo che la Grecia per l'eurozona era ormai molto più un peso che un'opportunità; eppure era troppo "complicato" lasciare al suo destino un paese che almeno nominalmente ostentava buona volontà.
Insomma, i governi greci "magnavano", ma tutto sommato i loro leader sapevano stare a tavola. Con Syriza al potere, i toni della Grecia cambiano; l'approccio del governo di Atene diventa più arrogante e conflittuale e questo, in un certo senso, può rappresentare per i paesi "seri" un'opportunità di smarcarsi dalla politica "morbida" finora messa in atto nei confronti della Grecia.
Nella pratica, se Tsipras fuoriesce dalla logica del "reformo ut des" su cui si è mosso finora il negoziato tra Atene e Bruxelles, questo toglie all'Europa qualsiasi alibi per non fare finalmente quello che si sarebbe dovuto fare da anni: lasciare la Grecia al proprio destino.
Alla Grecia dovrebbe essere consentito di fare default e di uscire dall'Euro ed eventualmente dall'Unione Europea. Contemporaneamente dovrebbe essere interrotto qualsiasi ulteriore flusso di risorse a favore di Atene. È tempo che le idee politiche di Tsipras siano messe alla prova. Se i greci hanno votato per le sue ricette, ha senso che ne affrontino tutte le conseguenze, senza paracadute.
Per molti versi, è anche utile che la Grecia diventi l'"experimentum in corpore vili" del grillismo-vendolismo europeo. Si provino lì tutte quelle idee su cui i populisti nostrani (di destra e di sinistra) raccolgono sempre più consensi: uscita svalutativa dall'Euro, stampa di moneta a go go, più welfare e "politiche di crescita" attraverso una sempre maggiore spesa pubblica.
Non è difficile prevedere che simili politiche condurrebbero la Grecia verso il più completo disastro e verso condizioni di povertà finora assolutamente sconosciute in Europa. Un guaio terribile, naturalmente per i greci, in specie per quelli non abbastanza veloci a scappare o a portare i soldi all'estero. Al tempo stesso, però, un fallimento rapido e dalle dimensioni clamorose di una Grecia così amministrata sarebbe una formidabile lezione per gli altri europei, o per lo meno per chi tra loro abbia voglia di coglierla.
La Grecia che avremmo tra due-tre anni ci direbbe molto su come sarebbe un'Italia governata da Salvini, da Vendola o da Grillo.
Naturalmente l'esperimento funziona solo se Tsipras sarà lasciato "libero di governare" e, soprattutto, se si troverà a governare solo con i soldi dei greci. Il vero rischio è che i leader europei, contro ogni logica razionale ed in ossequio solo ad un europeismo come totem ideologico, continuino a ritenere che la nuova situazione che si è creata ad Atene possa ancora essere gestita con gli stessi strumenti utilizzati finora, cioè semplicemente allargando sempre più i cordoni della borsa e comprandosi la "pace greca" attraverso trasferimenti di risorse sempre più consistenti.
La decisione su come rapportarsi al nuovo governo di Syriza è probabilmente, la più importante che l'eurozona si sia trovata a prendere fino a questo momento. Riuscire a prendere la decisione giusta richiede essere disposti ad abbandonare schemi ideologici in cui troppi, anche molti liberali, sono rimasti imprigionati in questi anni.
Finora la grande illusione di molti liberali "europeisti" è stata che l'Unione Europea potesse essere utilizzata come strumento per "moralizzare" i paesi meno virtuosi e per imporre loro in modo paternalistico quelle riforme che essi non sarebbero in grado di produrre autonomamente. Occorre accettare che non è stato così e che, per i paesi del sud Europa, l'UE e l'euro, più che un "pungolo", sono stati la rete di sicurezza che ha consentito di portare avanti più facilmente politiche di spesa pubblica e di accrescimento del debito.
Le riforme non possono essere imposte in modo paternalistico ed eterodiretto. È possibile fare progetti a tavolino sul futuro di un paese per un certo numero di anni, ma alla fine inesorabilmente la realtà prevale e con essa la vera cifra ideologica e culturale del paese in questione.
Oggi non è più possibile continuare a rifiutare la realtà. Occorre sfatare il tabù dell'indissolubilità dell'eurozona; l'eurozona va rotta ed è giusto che la Grecia divenga a tutti gli effetti un paese povero, fino a che la cultura politica dei greci non muti determinando qualcosa di diverso.
Cercare di tenere la Grecia "dentro", costi quel che costi, sarebbe per l'Europa un errore esiziale che darebbe il via a un generalizzato assalto alla diligenza, cioè alle casse dei paesi più virtuosi. Tenere la Grecia dentro vuol dire darla vinta a Tsipras e quindi immediatamente replicare il boom di simili proposte politiche in tutta l'Europa mediterranea.
I primi emuli di Tsipras sarebbero gli spagnoli, che probabilmente tra pochi mesi consacreranno come primo partito la sinistra radicale di Podemos. E poi, subito dopo, verremmo noi italiani con chi tra Salvini, Grillo e la rinascente sinistra convincerà gli elettori di essere più bravo a svaligiare i forzieri di Francoforte.
Si avvierebbe, evidentemente, una completa degenerazione dell'Unione Europea che finirebbe vittima dei peggiori sindacalismi territoriali e di un aumento generalizzato della spesa pubblica e dell'intermediazione politica.
Perché questo scenario si verifichi, non occorre nemmeno che il "successo" di Tsipras sia sostanziale, basta che lo sia a livello della sua immagine pubblica, specie all'estero.
Per questo Bruxelles e Berlino devono essere risoluti nel non fare a Syriza nessuna concessione.
È evidente che accettare il default della Grecia ed il suo sganciamento dall'attuale unione monetaria avrebbe dei costi, ma tali costi sono sicuramente inferiori a quelli di proseguire indefinitamente nell'accanimento terapeutico. È ormai lontano da ogni logica il fatto che noi finanziamo la Grecia affinché un giorno ci ripaghi, aggiungendo così solo debito a debito.
Al di là delle parole, infatti, è evidente che la Grecia non potrà mai ripagare il suo debito pubblico. Il settore produttivo ellenico è troppo striminzito rispetto alle dimensioni dello statalismo di quel paese ed Atene evita il default solamente attraverso l'iniezione continua di liquidità da parte della BCE ed attraverso il contenimento artificiale dei tassi di interesse garantito dall'Europa.
Non c'è, tuttavia, nessun segnale di possibile inversione di rotta nell'economia ellenica.
È vero che mollare la presa significa per i creditori "capitalizzare le perdite", prendendo atto che si sono persi un bel po' di soldi. Tuttavia bisogna comprendere che l'aver perso dei soldi non è una buona ragione per perderne ancora nella flebile speranza di recuperarli.
Va anche ricordato che parte significativa del denaro dei creditori è stata comunque già persa in virtù delle ristrutturazioni del debito già finora effettuate con l'avallo dell'Unione Europea. L'haircut del 2012 ha colpito duro.
E comunque, in casi come questi, è più serio che i soldi li perda in primo luogo chi li ha volutamente prestati, piuttosto che si continuino a "socializzare le perdite" spalmando i costi delle politiche di spesa greche su tutti i contribuenti europei.
La possibilità che nell'eurozona vi sia ancora nel futuro qualche "valore" da difendere, in termini di serietà finanziaria e di rigore di bilancio, è ormai legata alla capacità della Merkel, di Rutte, di Juncker o di Katainen di dire finalmente "adesso basta".
Ma se ancora una volta, di fronte alle richieste del governo greco, i leader europei si caleranno le braghe, allora l'Unione Europea e l'eurozona sono destinate a divenire in breve un inferno di socialismo e di cialtroneria dal quale i paesi più virtuosi non avranno altra scelta se non quella di scappare il più lontano possibile.