La scorsa settimana il board della BCE ha deciso un ulteriore allentamento monetario. Il tasso di rifinanziamento principale, l'indicatore che più di tutti connota l'orientamento della politica monetaria, è stato ridotto da 0,25 per cento al minimo storico di 0,15 per cento. È quello che tutti si aspettavano. Da tempo si registra un'inflazione calante in tutta l'area euro. In alcuni paesi, tra cui l'Italia, i prezzi viaggiano stabilmente a velocità inferiore all'1 per cento e Draghi, di fatto, aveva già annunciato azioni vigorose per contrastare il rischio sempre più concreto di una deflazione.

draghi

Come sempre accade, la decisione è stata celebrata dalla rituale solfa sul denaro “a buon mercato” per le imprese. Si ritiene, in questo modo, di poter ridare ossigeno a un mercato del credito in agonia dal quale discende in larga parte la crisi dell'economia reale in molti paesi. Ma la manovra sul tasso di interesse è destinata probabilmente a non avere nessun effetto sul credito alle imprese e alle famiglie e, in ogni caso, c'è da aspettarsi ben poco nelbreve periodo.

È noto che qualsiasi riduzione dei tassi praticata a livello di banca centrale si trasferisce “allo sportello” solo dopo un po' di tempo, e i clienti solitamente ne beneficiano in misura molto parziale. Stavolta, per giunta, la riduzione è irrisoria, appena un decimo di punto. E poi, il tasso di riferimento era prossimo allo zero già prima della manovra. Il buon senso suggerisce quindi che lo strumento, arrivato a fine corsa, ha ormai esaurito ogni efficacia. E nemmeno si può contare più di tanto su un presunto effetto “psicologico”: gli operatori finanziari, infatti, hanno ancorato le proprie aspettative a uno scenario di tassi nulli già da molto tempo.

C'è chi osserva che, dopo questo ribasso, alle banche non converrà più tenere la propria liquidità presso la BCE, poiché il rendimento assicurato dai depositi della banca centrale, in termini reali, è diventato negativo. Da giovedì scorso, detenere liquidità nei conti della banca centrale comporta un rendimento reale netto pari a -0,1 per cento. È difficile dire, però, se questo convincerà le banche a rinunciare alla liquidità per prestare denaro alle imprese. Il costo di per sé è irrisorio e tenere la liquidità sui depositi BCE potrebbe tutto sommato rivelarsi ancora conveniente per le banche che non sono disposte a investire nell’economia reale. Qualora dovessero ritenere costoso questo parcheggio, ne cercherebbero altri.

Il tasso di interesse nullo, dunque, non servirà a far ripartire il credito all’economia reale. Anche per questo, altre misure di carattere straordinario, ispirate al Quantitative Easing in stile FED americana, sono state programmate dal board BCE e verranno attuate nei prossimi mesi ed è da queste ultime che molti si aspettano un impatto positivo più consistente sul credito e sull'economia. Si parla di prestiti a lungo termine mirati ad assicurare maggiori erogazioni di credito alle famiglie e alle imprese, i cosiddetti TLTRO (Targeted Long Term Refinancing Operation). Si parla anche di acquisti diretti di ABS (Asset Backed Security, una forma di cartolarizzazione di crediti bancari poco liquidi o rischiosi legati a imprese produttive) da parte della banca centrale.

Con questi strumenti “non convenzionali” la BCE cercherà di fornire liquidità all'economia attraverso canali più diretti. Ma questi canali passeranno pur sempre per il sistema bancario, ed è proprio questo è il cuore del problema. I risultati dei LTRO tradizionali (Long Term Refinancing Operation) erogati dalla BCE a partire dal 2012 sono stati piuttosto deludenti. La maggior liquidità resa disponibile alle banche è stata lasciata nei depositi della banca centrale oppure è stata investita in titoli pubblici.

Il problema del credit crunch non deriva dall'alto costo del danaro, e nemmeno dalla mancanza di disponibilità liquide da parte delle banche. A drenare il credito ha contribuito e contribuisce in modo determinante la transizione verso la nuova regolazione bancaria europea. Oggi le banche guardano alla qualità e alla rischiosità specifica del cliente con un'attenzione più grande che mai. L'asset quality review, nella prospettiva dell'Unione bancaria europea, esercita una pressione molto forte. E questo costringe gli intermediari ad adeguare con anticipo i propri bilanci a criteri e parametri molto impegnativi (requisiti patrimoniali e qualità dei prestiti). Per una larga fascia della clientela tradizionale, fatta soprattutto di medie e piccole imprese che non rispondono a standard elevati di qualità e rischiosità, questo si traduce nella completa chiusura dei canali del credito.

Purtroppo tutto questo sta avvenendo proprio nel momento in cui l'economia reale e i settori produttivi avrebbero maggior bisogno di liquidità. Il distacco tra realtà del mercato creditizio, dove qualità e rischiosità specifica del debitore sono cruciali e soltanto la singola banca può valutarli prima di decidere se erogare o no un prestito, e politica monetaria tradizionale, fatta di iniezioni di liquidità con strumenti convenzionali (manovra del tasso di interesse) o non convenzionali (LTRO, acquisto diretto di ABS), oggi è più ampio che in passato. Le ragioni sono diverse, ma una è ormai particolarmente evidente: in una economia complessa, dove il peso e il ruolo degli asset finanziari sofisticati è preponderante su tutto il resto, la politica monetaria è diventata lo strumento di una guerra psicologica. Una guerra dove a contare sono le aspettative di operatori finanziari tanto rapidi quanto spietati nelle loro decisioni. E dove, negli ultimi anni, i tradizionali canali del credito e le esigenze dell'economia reale hanno contato sempre meno.

È stato lo stesso Draghi a dichiarare che le misure di politica monetaria hanno un obiettivo prioritario: evitare il consolidamento di “aspettative deflazionistiche” nella mente degli operatori (e ovviamente per operatori si intende soprattutto quelli finanziari). Uno studioso italiano di tecnica bancaria, famoso nel secolo scorso, sosteneva che la storia dei rapporti tra banca e industria è fatta di periodi alterni. In alcuni periodi l'industria domina sulla banca, in altri la banca domina sull'industria. A me pare che oggi siano i mercati finanziari a dominare su entrambe. Anche questo “segno dei tempi” dovrebbe convincerci che la politica monetaria, da sola, non è risolutiva. Oggi anche i margini della politica di bilancio sono troppo stretti.

Nella crisi degli anni ’30 del secolo scorso, i bilanci pubblici pesavano circa il 20 per cento del PIL. Oggi pesano il 50 per cento del PIL e sono accompagnati da un debito pubblico enorme. Nemmeno la leva fiscale, quindi, è disponibile. Non ci resta che un rilancio dell'offerta, fatto di maggiore produttività ed efficienza, soprattutto del settore pubblico. E le politiche necessarie passano per una riduzione della spesa pubblica e del peso dello Stato nell'economia, per una drastica semplificazione della normativa, una regolamentazione più snella ed efficace, minore burocrazia.

Privatizzazioni e vere liberalizzazioni che restituiscano più libertà sui mercati dei beni e dei fattori, alle imprese e alle famiglie. Solo così possiamo provare a uscire dalla crisi di questo inizio secolo