L'Europa è un sistema parlamentare, non presidenziale, esattamente come lo è l'Italia, dove, a dispetto della pratica di indicare sul simbolo di una lista il nome del candidato alla Presidenza del Consiglio, in realtà quello che si elegge è solo il Parlamento, il quale a sua volta conferirà poi la fiducia al premier designato dal Capo dello Stato.

Dibattito commissione ue

Il 25 maggio prossimo, quindi, non voteremo per il Presidente della Commissione ma solo per i rappresentanti del Parlamento. Il Presidente della Commissione europea, come prevedono i Trattati, verrà invece eletto dal Parlamento europeo, su proposta del Consiglio Europeo – cioè dai Capi di Stato e di Governo dei paesi membri dell'Unione.

Dunque di che abbiamo parlato fino ad ora? A cosa sono stati candidati Martin Schulz per il Pse, Jean-Claude Juncker per il PPE, Guy Verhofstadt per i liberali dell'ALDE e poi Akexis Tsipras per la lista omonima e Ska Keller per i Verdi? Cosa hanno significato i tre dibattiti televisivi 'ufficiali' tra i candidati, o lo State of the Union organizzato dall'Istituto europeo di Firenze per mettere a confronto le proposte delle diverse liste?

La questione è che, a dispetto della natura non parlamentare della governance europea, queste elezioni sono state accompagnate da una novità significativa. Per la prima volta infatti i gruppi politici europei hanno concordato di designare un proprio candidato alla presidenza della Commissione, rendendo politicamente vincolante per il Consiglio il conferimento dell'incarico al candidato risultato vincitore alle elezioni.

I diversi candidati – va detto – esprimono la non proprio perfetta omogeneità tra i partiti nazionali all'interno dei gruppi europei. Un piddino liberale ad esempio potrebbe trovarsi più a proprio agio con la leadership del non retorico Verhofstadt, piuttosto che con l'usato tanto sicuro quanto dogmatico del socialista Schulz. O pensiamo a Forza Italia, che fa parte del PPE come la Merkel e che come candidato si trova Juncker, cioè un leader ed una visione politica contro cui lo stesso Berlusconi ha imbastito la sua improbabile campagna elettorale.

In ogni caso – ripetiamo – il vincolo per il Consiglio di dare la Presidenza della Commissione al candidato del partito che si piazza primo è esclusivamente politico, non giuridico. Qualora nessuno dei cinque partiti e dei relativi candidati ottenesse la maggioranza – ipotesi che nessun sondaggio accredita come probabile – allora il nuovo Presidente della Commissione non verrà fuori dal risultato elettorale, ma sarà il risultato del successivo accordo tra i Capi di Stato e di Governo, secondo i tradizionali criteri intergovernativi in cui a pesare è la forza dei singoli paesi più che quella dei singoli gruppi politici.

Insomma, a scegliere saranno i paesi importanti come Germania, Francia, Italia più che i partiti forti come Ppe o Pse o – in peso minore - Alde. E questo è un vero peccato perché, dopo questo primo assaggio di democrazia europea, nel momento in cui si cominciava effettivamente a vedere spuntare l'Europa politica – anche se solo in una forma simulata, in potenza – si assisterà invece al ritorno della decisione nelle nebbie della negoziazione tra Stati.

In queste settimane ciascun cittadino europeo ha sperimento la democrazia in una inedita versione comune, proprio grazie alla competizione tra candidati e liste alternative, tra visioni, progetti e leadership. Si è cioè visto affermare, in questo scorcio di presidenzialismo europeo, lo spazio democratico comune in cui il cittadino partecipa confrontandosi con progetti di governo, e leader che se ne fanno garanti, in una competizione elettorale trasparente in cui chi vince governa per i futuri cinque anni, e l'elettore ha un'idea chiara di chi abbia deciso cosa, a chi tributare gli onori di un eventuale buon governo o, al contrario, sanzionare per un'amministrazione deficitaria.

Gli europei hanno fondatissime ragioni per non fidarsi dell'Europa – e la principale delle quali è che l'Europa agisce come una cupola tecnocratica, impermeabile alla intemperie che si abbattono sulla terra ferma della democrazia reale. L'Europa prende decisioni che non hanno una faccia. Decisioni che, oltretutto, si rivelano spesso mostruosamente insensate (il ritardo negli aiuti alla Grecia), o velleitarie (le sanzioni all'Ucraina), o vergognosamente timide (la mancata integrazione politica).
La frustrazione massima per il cittadino europeo è non poter avere nemmeno nessuno a cui chiedere conto. I parlamentari fanno altro. La Commissione fa quello che dice il Consiglio, e il Consiglio fa quello che impongono le alleanze inter-governative fondate su miopi interessi nazionali. Chi comanda dunque?

I sondaggi prevedono una situazione di sostanziale parità tra Ppe e Pse. È improbabile quindi che a presiedere la prossima Commissione siano i candidati dei due partiti "grossi" che si sono confrontati in queste settimane – cioè Juncker o Schulz.

Viene anzi ormai dato come acclarato che il nuovo Presidente sarà qualcun altro – si fa ad esempio il nome dell'attuale Presidente del Fmi, la francese Christine Lagarde. Per l'elettore europeo sarà una beffa. A meno che i capi di stato e di governo non realizzino come, seppur timido, questo passaggio elettorale vagamente 'presidenziale' ha nei fatti creato un bisogno di Europa politica che nessuna resistenza nazionalistica potrà ignorare o tanto meno ostacolare. E che dunque non sarà affatto possibile un ritorno al business as usual andato in onda nell'ultimo lustro. Dovrà piuttosto essere l'esatto contrario: un business talmente unusual da risultare nella determinazione degli attuali depositari del potere decisionale europei – gli stati nazionali – a cedere sovranità alla democrazia comune.

@kuliscioff