Nel mondo, in uno Stato su quattro sono in vigore leggi contro la blasfemia e l’apostasia. Sono comuni in Medio Oriente e Nord Africa, ma anche in Asia e Africa Sub-Sahariana, oltre che, in misura più marginale, in Europa e Americhe. È una situazione sempre più pericolosa, che rompe il legame tra libertà di espressione e libertà religiosa e su cui in ambito Onu non si riesce a giungere a un dibattito maturo.

Macri preghiera

In tempi di forti tensioni geopolitiche, di processi migratori imponenti e di robuste instabilità socio-economiche, la religiosità umana si declina non più e non solo attraverso il metodo “tradizionale” dei rapporti tra Stato e confessioni religiose (come in molti paesi occidentali), bensì secondo modalità “orizzontali” in cui tutti sono protagonisti (governi, comunità religiose, società civile organizzata, etc.), ma che non sempre avvantaggiano le minoranze, sacrificate a seconda degli equilibri di potere e soggette a discipline giuridiche di “soft law” per nulla in sintonia con le risoluzioni adottate a livello internazionale.

Queste modalità operative, inoltre, soprattutto all’interno di molti paesi di cultura islamica, non rispondono neppure al criterio della separazione tra istanze religiose e interessi pubblici, stante la prevalenza delle norme di derivazione religiosa (es. la shari’a) su quelle prodotte dall’esperienza umana.

Tra le cause di “Disarmonia sociale e violazione dei diritti umani” (Risoluzione del 19 dicembre 2006) le Nazioni Unite hanno ritenuto necessario far rientrare anche la diffamazione delle religioni, inquadrata come fattispecie criminosa derivante dalle tensioni tra gruppi etnici, razziali o religiosi, intorno alla cui delimitazione normativa, però, il dibattito politico e specialistico non ha raggiunto risultati soddisfacenti.

Se inizialmente (utilizziamo la data dell’11 settembre 2001 come momento temporale di riferimento) è sembrato abbastanza chiaro quale dovesse essere il fine di questa “categoria”, col passare del tempo, soprattutto all’interno di molti stati islamici, essa ha finito col pesare negativamente sulle libertà religiose delle minoranze non-musulmane, ostacolando la messa in sintonia degli apparati normativi di questi stati con i parametri approvati a livello internazionale. Tant’è vero che la disparità di vedute tra paesi aderenti all’Organizzazione per la Conferenza dei Paesi Islamici (OCI) e paesi “altri” è venuta progressivamente emergendo, in quanto ritenuta (dai secondi) «troppo sbilanciata a favore di una sola religione (l’Islam) e idonea a determinare situazioni di conflitto tra libertà religiosa e libertà di espressione» (S. Angeletti).

In alcuni paesi islamici – seppure di recente investiti da esperienze democratiche e da processi di consolidamento politico-giuridico ispirati al costituzionalismo europeo – gli apparati pubblici, «ove abbiamo interesse, per ragioni di natura politica, a censurare il dibattito pubblico e a comprimere la libertà di critica», non si sono fatti problemi ad accrescere «il [proprio] potere nei confronti dei soggetti più deboli e vulnerabili» (S. Angeletti). Le vicende in corso nella “Nuova Turchia” di Erdogan tracciano uno scenario di chiaro declino della tolleranza, all’interno del quale, a farne le spese, sono soprattutto le componenti culturali che si oppongono al piano di islamizzazione tenacemente perseguito dal governo di Ankara. In altri contesti come quello multiculturale europeo, invece, la libertà religiosa deve fare i conti con istanze neo-comunitariste sprigionative di pericolose tensioni sociali, costitutive di aree di specialità derogatorie della legalità costituzionale (es. le giurisdizioni alternative, gli statuti personali, le scuole di tendenza islamica, etc.) e foriere di conflitti permanenti (F. Alicino).

Questo tipo di approccio verso il dissenso (in generale) e la diffamazione per motivi di religione (in particolare) non solo accentua le sempre più estese situazioni di conflitto sociale e di scontro tra fedi, ma rompe il nesso di reciproca complementarietà tra libertà di opinione e di espressione e libertà di pensiero, coscienza e religione. Si tratta di una frattura che, in Occidente, alimenta una sovrapposizione alquanto pericolosa tra l’esercizio della libertà religiosa e il dato etnico. Fenomeni di questo tipo si registrano nelle grandi periferie delle capitali europee, dove il livello di integrazione è basso e le manifestazioni simboliche di certe forme di credenze (es. l’uso ostentato del velo islamico) si sovrappongono all’assenza di tutele sociali anche minime.

Contemporaneamente, in molti paesi di cultura islamica, il fondamentalismo religioso determina l’aumento di atteggiamenti ostili verso minoranze come quelle cristiane. La convivenza diventa, perciò, sempre più difficile, tant’è che la Chiesa, di fronte a questo “martirio”, è impegnata a portare avanti un negoziato finalizzato a «salvare i resti del cristianesimo mediorientale», ma anche in Pakistan e Indonesia (A. Riccardi, La bandiera di Lepanto non abita più in Vaticano, in “Sette” de “Il Corriere della Sera”, n. 34 del 26 agosto 2016, pp. 28-21). Risale già al 2010 una proposta avanzata dall’allora presidente del “Pontificio Consiglio Giustizia e Pace”, Cardinale Peter Turkson, per una risoluzione sulla “diffamazione delle religioni” in cui inserire chiari riferimenti oltre che alla “islamofobia”, anche alla “cristianofobia”. Più di recente, lo sforzo di Papa Francesco, sostenuto anche da importanti esponenti del mondo musulmano, si concentra tutto sul fronte del dialogo interreligioso affinchè l’integralismo settario non prevalga sulla convivenza tra identità differenti.

A complicare la situazione sopraggiunge la legislazione sulla blasfemia. Si tratta di una serie di soluzioni adottate con lo scopo (meritevole) di “mettere in sicurezza” la religione. Ad avvalersene, però, concretamente (in chiave “difensiva”) sono le organizzazioni religiose di maggioranza, le quali, potendo fare affidamento sul sostegno, diretto o indiretto, dei poteri pubblici, aspirano a “ridurre al silenzio” le comunità religiose minoritarie, sovente scomode. Da qui il paradosso di sistemi normativi, teoricamente predisposti a garanzia della religiosità di tutti, ma nei fatti capaci di incidere negativamente sui livelli di tutela minimi delle componenti culturali e religiose più labili.

Recenti ricerche del “Pew Research Center”, ci ricorda Angelina E. Theodorou, dicono che un quarto di tutti i paesi del mondo mantiene in vigore leggi contro la blasfemia oltre che leggi e politiche contro l’apostasia. Queste sono frequenti in Medio Oriente e Nord Africa, ma anche in Asia e Africa Sub-Sahariana, oltre che, in misura più marginale, in Europa (7 paesi su 45) e Americhe (10 paesi su 35). Si tratta, anche qui, di fattispecie particolarmente “resistenti” ai mutamenti sociali, stante la connessione con fattori antropologici e culturali difficili da mettere in discussione nonostante i processi di globalizzazione in atto. Un caso emblematico, per esempio, è rappresentato dal Pakistan, dove le norme in materia di blasfemia affondano le loro radici nel passato coloniale, quando i governanti inglesi introdussero specifiche sanzioni contro l’oltraggio verso determinate credenze. Queste leggi sono rimaste in vigore anche dopo il conseguimento dell’indipendenza (1947), a volte finanche irrigidendosi.

Sempre sulla base dei dati riportati dal “Pew Research Center”, nel 2014, negli Stati Uniti, precisamente in Massachusetts e Michigan, si annoveravano leggi sulla blasfemia contenuta nei libri. Tuttavia, secondo l’interpretazione offerta dalla giurisprudenza, il Primo Emendamento alla Costituzione ne impedirebbe la concreta applicazione. Singolare, infine, anche il caso delle Maldive, dove tutti i cittadini sono obbligati a essere musulmani, e coloro che si convertono a un’altra fede possono incorrere nella perdita della cittadinanza.

Non sono mancati i tentativi di invertire la rotta. Nel 2011, con una Risoluzione delle Nazioni Unite (“Combating intolerance, negative stereotyping and stigmatization of, and discrimination, incitement to violence, against persons based on religion or belief”) si è cercato di passare dal piano della tutela principale delle religioni (come istituzioni) a quello della protezione diretta della libertà dei fedeli. Il dato rilevante (simbolico oltre che normativo) è stato l’assenza di un qualsiasi riferimento alla “diffamazione” delle religioni. La Risoluzione non ha prodotto gli effetti sperati. I gruppi religiosi, da par loro, specie se maggioritari, non hanno interesse a cedere posizioni di privilegio.

Il percorso per giungere in ambito ONU a un dibattito maturo sulla diffamazione religiosa e sulla blasfemia resta ancora irto di ostacoli. Questo, come ha scritto di recente Pasquale Annicchino, dipende non solo dal «ritrovato attivismo dei Paesi di tradizione musulmana, ma [anche dal nuovo ruolo svolto] da Paesi che si rifanno a tradizioni cristiane». Il compito, perciò, che le organizzazioni internazionali, la società civile organizzata e i soggetti istituzionali statali sono chiamati a svolgere ha bisogno di un confronto sempre più incisivo con ampi settori di opinione pubblica contro le nuove forme di restrizione degli ambiti di libertà e dissenso.