Si può dire che la riforma approvata dalle camere raggiunga tutti gli obiettivi che si era prefissa? Il nuovo Senato e il nuovo Titolo V rendono più risolto e meno problematico il rapporto centro-autonomie? Ecco una rassegna - né antipatizzante, né pregiudizialmente contraria - delle ambiguità e delle debolezze di un testo complesso, non sempre all'altezza delle proprie ambizioni.

Canale monumento

Tre doverose avvertenze iniziali.
Questa riflessione sulla riforma costituzionale è, su richiesta, volutamente sbilanciata sulle criticità del nuovo testo costituzionale. Ciò, però, non vuole dire che chi scrive debba essere annoverato tra i sostenitori del NO (e, ovviamente, nemmeno tra quelli del SÌ).

Lo spazio a disposizione non poteva consentire una trattazione compiuta di ogni aspetto della vasta riforma e quindi si è scelto di limitare la (succinta) riflessione al nuovo Senato e alla (contro)riforma del Titolo V.

Si è cercato di restare sul piano dell’analisi giuridica, evitando sia i toni politici trionfalistici dei cantori del renzismo, sia quelli apocalittici dei guardiani della ortodossia costituzionale.

1. Come noto, il core business della riforma riguarda il superamento del bicameralismo paritario, con la configurazione del Senato della Repubblica in una Camera rappresentativa degli enti territoriali, priva del rapporto fiduciario col Governo, che diviene di competenza dell’unica Camera politica, quella dei deputati. Questa nuova finalità rappresentativa viene conseguita attraverso l’elezione di secondo grado dei senatori, peraltro drasticamente ridotti di numero e privati dell’indennità. In definitiva, la riforma si propone di realizzare un assetto istituzionale più snello, efficiente ed economico, dando compimento a quanto quasi unanimemente richiesto dalla dottrina, cioè il superamento del bicameralismo paritario, di cui il caso italiano è ormai un unicum nel panorama europeo, e la riqualificazione del Senato in una “Camera delle autonomie territoriali”. Eppure non è oro tutto ciò che luccica.

1.1 Un primo elemento di criticità riguarda l’impianto generale del nuovo bicameralismo in connessione con la (contro)riforma del Titolo V; da un lato, cioè, si istituisce il Senato delle Autonomie e dall’altro si rafforza nettamente l’istanza centralistica. Questa manifestazione di strabismo del legislatore costituente potrebbe essere derubricata a singolarità, ma svela una possibile incoerenza teleologica che potrebbe avere l’effetto di produrre una seconda Camera debole e marginale, perché rappresentativa di Enti in fase di regressione politica.

1.2 Un secondo elemento di criticità riguarda la composizione del nuovo Senato. Come noto, i senatori saranno cento, di cui:

- novantacinque eletti dai consigli regionali e delle due province autonome (Trento e Bolzano) tra i consiglieri e i sindaci dei loro territori (un sindaco per regione e provincia autonoma);

- cinque senatori nominati dal Presidente della Repubblica per avere illustrato la Patria con particolari meriti (la durata dell’incarico sarà di sette anni, come quella del Capo dello Stato);

- infine, gli ex Presidenti della Repubblica, di diritto nominati senatori a vita.

L’elencazione dei componenti del nuovo Senato evidenzia plasticamente l’incoerenza di includere nella Camera delle Autonomie senatori espressione dell’intera comunità nazionale (D’Atena). Ma questo elemento, finché rimane privo di effetti politici, potrebbe essere solo un (pur discutibile) omaggio alla tradizione istituzionale. La questione assume però un altro rilievo, quando si consideri che i senatori di nomina presidenziale potrebbero diventare decisivi per gli equilibri politici del Senato. Infatti, rispetto ad oggi essi diverrebbero una componente percentualmente più significativa dell’intera assemblea. Quindi, il Presidente della Repubblica potrebbe condizionare gli equilibri politici della seconda Camera, che potrebbero essere molto precari, posto che l’elezione indiretta dei restanti senatori dovrebbe avvenire con metodo proporzionale. D’altronde, se è vero che gli equilibri del Senato non avrebbero immediati e diretti effetti politici, per l’assenza del vincolo fiduciario, sembrerebbe altrettanto vero che ciò potrebbe comunque divenire un elemento di destabilizzazione, perlomeno per l’esercizio della potestà legislativa nelle (fondamentali) materie bicamerali.

1.3 Un terzo elemento di criticità riguarda le modalità di elezione dei senatori espressione dei territori, ancora da approvare; sul punto si sono scaricate molte delle tensioni politiche interne al partito di maggioranza. Al riguardo, in attesa di conoscere il dettaglio delle anzidette modalità, può sin d’ora osservarsi che l’elezione indiretta è indebolita dalla conferma del divieto imperativo, e quindi dalla mancanza di un meccanismo di voto unitario per territorio, come nel caso della seconda camera tedesca, che avrebbe rafforzato la nuova logica rappresentativa del nuovo Senato. L'elezione indiretta, in questa formulazione, rischia di incrementare la frattura tra le istituzioni e il corpo elettorale, in quanto i neosenatori potrebbero essere percepiti come espressione della casta partitica, vanificando inoltre il benefico effetto atteso della soppressione delle indennità. Peraltro, sarà necessario verificare in concreto se il doppio incarico elettivo dei senatori non finisca, almeno in parte, per condizionare o compromettere l'esercizio di una o di entrambe le cariche.

1.4 Per quanto concerne il nuovo processo legislativo, va subito precisato che questo non prevede nessuna legge monocamerale. Si ha quindi comunque un processo legislativo bicamerale, che può essere ancora paritario per la revisione costituzionale e altre materie fondamentali, mentre diventa asimmetrico (Staiano) nella gran parte dei casi, con la previsione della definitiva espressione della volontà legislativa attribuita alla Camera dei deputati, talvolta a maggioranza semplice, talaltra a maggioranza assoluta.

Al riguardo, può osservarsi che gli elementi di maggiore criticità, evidenziati dalla dottrina, sembrano essere i seguenti:

- il rischio di paralisi della procedura per la revisione costituzionale, vista la difficoltà di ottenere le maggioranze prescritte dall’art. 138 Cost. nel nuovo Senato per tutta la durata del lungo iter di revisione (si ricorda che la composizione del Senato si modificherà contestualmente alle scadenze elettorali regionali);

- l’indeterminatezza e l’eterogeneità delle materie elencate nel nuovo art. 70, che rischiano di comportare una certa discrezionalità interpretativa con possibili conflitti tra i due rami del Parlamento per individuare l’esatta procedura da seguire (Brunelli);

- il probabile aumento delle denunce di vizi procedurali nel contenzioso costituzionale (Passaglia), con il rischio di una maggiore politicizzazione dell’organo di giustizia costituzionale, anche per la previsione del giudizio preventivo di legittimità sulla legislazione elettorale.

1.5 Infine, è opportuno segnalare quella che sembra un'evidente incoerenza sistematica, cioè la nuova formulazione della disposizione sulla dichiarazione di guerra, che spetta con votazione a maggioranza assoluta alla sola Camera dei deputati. Al riguardo, assegnare alla semplice maggioranza politica il potere di “scatenare l’inferno” sembra un azzardo, soprattutto in un contesto geostrategico contraddistinto da numerosi focolai di crisi, alcuni dei quali potrebbero divampare improvvisamente. Può sembrare una preoccupazione eccessiva, ma contro certi rischi è meglio assicurarsi per tempo, per non subirne le pesanti (e talvolta irreversibili) conseguenze.

2. Un altro elemento fondamentale della legge di revisione riguarda la (contro)riforma del Titolo V, basata sull’ampliamento delle materie di competenza esclusiva statale, sull’espressa soppressione della potestà concorrente e sulla introduzione della cosiddetta “clausola di supremazia”.

In estrema sintesi i principali elementi critici di questo versante della riforma sembrano essere i seguenti:

- vengono introdotte, tra le competenze asseritamente “esclusive” dello Stato, numerose “clausole di colegislazione” (Pajno), che rischiano sostanzialmente di riesumare la potestà concorrente asseritamente eliminata;

- l’omissione di alcune importanti materie, di significato evidentemente nazionale, dalla legislazione esclusiva statale le fa rientrare, a stretto rigore, nella competenza regionale: è il caso, ad esempio, della circolazione stradale;

- si apre verosimilmente un nuovo periodo di accesa conflittualità tra Stato e Regioni, che era finalmente tornata ai livelli fisiologici, in quanto si rimettono in discussione gli equilibri raggiunti anche grazie all’opera della giurisprudenza costituzionale;

- la clausola di supremazia sembra avere una intensità e un’ampiezza eccessive, che rischiano di assumere i caratteri di un “apriti Sesamo” universale, condannando alla cedevolezza l’intero riparto delle competenze legislative (D’Atena).

 

3. In conclusione, ciò che meno convince è la pretesa di riformare radicalmente il riparto di competenze tra Stato e Regioni dopo così poco tempo: non si può pensare di cambiare le regole del regionalismo ad ogni cambio di stagione politica. Peraltro, ciò getta una sinistra luce sull’intero processo di riforma, nel senso che fa sorgere il dubbio se questa sia ben congegnata oppure se si stia compiendo l’analogo errore, che ora si dichiara sia stato compiuto nel 2001, quello di avere cioè realizzato una frettolosa e approssimativa riforma per il principale obiettivo di drenare il consenso delle forze politiche emergenti. Sarebbe un errore gravido di conseguenze, in quanto le contingenze politiche mutano repentinamente e, soprattutto, la riforma a maggioranza favorisce la polarizzazione politica, come sembra dimostrare la piega che ha preso la campagna referendaria, dove, paradossalmente, il merito delle questioni sembra diventare, purtroppo, l’elemento meno significativo.