Instabilità politica e basso rendimento delle istituzioni. I difetti del nostro sistema costituzionale si trascinano da decenni, cronicizzati dall’idea che l’Italia faccia storia a sé e che non le si addicano correzioni troppo “normali”. Nel suo ultimo libro - 'Italia, si cambia. Identikit della riforma costituzionale', Rubbettino - Giovanni Guzzetta ripercorre la storia delle riforme mancate e conclude che quella che andrà al voto il prossimo ottobre è un passo avanti nella direzione giusta. Nel complesso positiva, anche se non risolutiva.

Palma barcatricolore

Tu sei un costituzionalista, ma insisti molto sul peso della storia. E inviti a uscire dall'illusione che la soluzione dei problemi più evidenti del nostro sistema istituzionale - l'inefficienza dei governi e la frammentazione del sistema politico - possa giungere seguendo un filo di continuità e non operando invece una rottura decisa e motivata di alcuni tabù, a partire dal più radicato, secondo cui una democrazia consensuale e consociativa, in Italia, è comunque preferibile e costituzionalmente più 'sicura' di una democrazia competitiva. La riforma Renzi-Boschi, da questo punto di vista, merita la sufficienza?

Questa non è la riforma che io avrei voluto, ma è una riforma che aggredisce alcuni punti che sono effettivamente problematici. Il confronto che oggi va fatto non è tra questa riforma e quella che io, o chiunque altro, preferiremmo, ma tra la situazione attuale e quella che si determinerebbe se la riforma entrasse in vigore. Il mio è un giudizio, dunque, doppiamente relativo. Sia nel senso che mette in relazione le due alternative concrete che gli elettori hanno di fronte, sia nel senso che esce dalla logica del giudizio assoluto sulla migliore delle riforme possibili. Io credo che l'eliminazione di un bicameralismo paritario e indifferenziato senza uguali nella tradizione democratica - a cui i nostri costituenti attribuivano una funzione esplicitamente "ritardatrice" - sia un passo avanti. Allo stesso modo penso che sia positiva la riforma del regionalismo nel senso della responsabilizzazione delle regioni e delle autonomie territoriali, e non più della garanzia formale della loro indiscutibile autonomia, che di fatto è stata già travolta dalla giurisprudenza costituzionale. Nel libro, poi, esamino nel dettaglio i chiaroscuri, le ambiguità e le debolezze del nuovo impianto. Ma esprimo anche un giudizio complessivamente favorevole sulla riforma, sforzandomi di farlo in modo razionale e coerente con quanto dico e scrivo da anni, non con atteggiamento ideologicamente militante.

Tu parli di chiaroscuri. Hai detto, in sintesi, i "chiari". Proviamo a riassumere gli "scuri".

La parte più negativa è soprattutto quella che manca, ciò che in questa riforma non c'è e, dal mio punto di vista, avrebbe dovuto esserci. Ad esempio - per rimanere alle mancanze più macroscopiche - non c'è una decisione fondamentale sulla designazione del capo dell'esecutivo e non è stato risolto il nodo, sempre più ingarbugliato e problematico, del ruolo del Presidente della Repubblica, che in questi anni ha subito un'evoluzione straordinaria e un'evidente espansione politica.

Proviamo a rispondere alle critiche di chi sostiene - è uno schieramento ampio e autorevole, anche dal punto di vista scientifico - che questa riforma forza in maniera irreparabile gli equilibri costituzionali previsti dalla Carta e dunque non la riforma, ma la snatura.

Io penso che la Costituzione del '48 - nella sua parte organizzativa dei rapporti tra organi di governo - abbia già dato tutto quello che poteva dare; è stata stiracchiata in tutti i modi e vedo improbabile l'ipotesi di un adattamento, cioè di uno stiracchiamento ulteriore. A maggior ragione ritengo impossibile e regressivo il ritorno, che molti vagheggiano, alla Costituzione nella sua ispirazione originaria, proprio perché la Costituzione nasce in un contesto storico che non esiste più, sia dal punto di vista geopolitico che ideologico-culturale. Soprattutto, la Costituzione nasce con un obiettivo che è opposto a quello che bisogna perseguire oggi: la preoccupazione dei costituenti era di evitare che una maggioranza vincesse le elezioni e governasse da sola, come un asso-pigliatutto. In questa preoccupazione pesava ovviamente il ventennio fascista e il timore di un governo autoritario, ma pesavano soprattutto le radicali divergenze ideologiche tra i partiti costituenti, la conventio ad excludendum di quelli legati a Mosca e dunque la loro impossibilità di “contare” puntando all’alternanza nella guida dell’esecutivo. Quindi, più che dispositivi di controllo e bilanciamento, vennero fuori meccanismi di freno, di condizionamento e di indebolimento del ruolo del governo e più in generale dell'autonomia delle istituzioni dal potere dei partiti. La consapevolezza che questa scelta fosse destinata a diventare un problema era già presente, ad esempio, in De Gasperi nella prima legislatura repubblicana. Oggi, comunque, l'esigenza è quella di avere un sistema efficiente che funzioni, in cui il governo possa decidere e rispondere delle decisioni assunte e in cui il voto degli elettori abbia un effetto di esplicito indirizzo politico. Il Paese è cresciuto, non ci sono più quelle spaccature ideologiche radicali ed è non solo tollerabile, ma auspicabile che ci sia un'alternanza di governo tra maggioranze diverse. Una costituzione costruita interamente su istituzioni deboli e partiti forti e centrali che mediano tutti i processi politici è, per questa parte, oggettivamente superata da processi storici che, peraltro, non riguardano solo l'Italia.

La tua tesi è che dall'immediato periodo post-unitario alla fine della Prima Repubblica in Italia il sistema politico-costituzionale abbia di fatto conservato le stesse caratteristiche: la frammentazione della rappresentanza e la mancanza di veri meccanismi di accountability; la debolezza e l'instabilità dei governi, mera espressione di equilibri parlamentari mutevoli, trasformistici e consociativi; l'opacità e la scarsa autonomia del momento istituzionale... Più di centocinquanta anni non sono bastati per correggere questi difetti?

La cosa interessante è che questa linea di continuità rimane inalterata anche se ad un certo punto si inserisce una variabile molto importante, quella dei partiti politici. L'Italia liberale presenta un sistema politico in cui non si confrontano due formazioni o schieramenti nettamente alternativi; la frammentazione e il trasformismo nascono in un contesto di democrazia elitaria. Nel momento in cui la democrazia italiana si trasforma in una democrazia di massa, i partiti sono talmente ideologizzati e divaricati nelle loro prospettive strategiche che riproducono lo stesso schema di conflittualità permanente. Sia la democrazia notabilare che la democrazia dei partiti sono stati sistemi “ad alternanza impossibile”. Il modello organizzativo della politica pre-partitica sopravvive anche all'avvento dei partiti. Oggi siamo in una terza fase, in cui i partiti sono di fatto scomparsi, ma il modello della democrazia competitiva continua ad essere visto come pericolosamente "anti-democratico".

In Italia vediamo un non-partito, il M5S, balzare in testa ai sondaggi sulla spinta di suggestioni non solo post-partitiche, ma di fatto post-democratiche: la fine della rappresentanza, il mito dell'autogoverno diretto da parte del popolo... È un fenomeno che ha caratteristiche, a partire dalla totale indeterminatezza ideologica, senza uguali al mondo. Ma quella italiana non è la sola democrazia minacciata dall'ondata populista e mi pare difficile sostenere, come tu sembri suggerire, che questo fenomeno sia semplicemente un effetto della fragilità e dell'inefficienza delle istituzioni politiche. La Francia e gli Stati Uniti non sono Paesi con governi e istituzioni deboli, eppure Le Pen e Trump...

Sì, però anche in questo caso occorre un giudizio comparativo: gli USA hanno un sistema istituzionale debole. Sono un Paese molto forte, ma non un sistema decisionale particolarmente efficiente. La netta separazione tra esecutivo e legislativo comporta la necessità di una fortissima consociazione istituzionale. L'establishment politico è sempre esposto al rischio e comunque all'accusa di autoreferenzialità. Trump cresce perché attacca "questa" Washington, che è incapace di percepire e risolvere i problemi concreti e che è un bersaglio perfetto del malessere popolare. La Francia è diversa e penso anche che il fenomeno e il rischio populista sia molto più contenuto che in altri stati, come ad esempio l'Olanda, che ha un sistema politico molto più debole e fragile. È vero che l'impatto del populismo, in un modo o nell'altro, riguarda tutti i paesi, perché tutti sono costretti ad affrontare la questione epocale del "rendimento della democrazia", che non è solo un problema di risultati, ma di legittimazione delle istituzioni democratiche. I modi in cui i diversi paesi affrontano questa questione sono - proprio per il diverso rendimento istituzionale – diversi, e diverse le conseguenze: il Regno Unito, ad esempio, è in una situazione diversa rispetto a quella in cui si trovano l'Italia, l'Olanda o la Spagna. Anche in questo caso, le istituzioni contano.

Torniamo al contenuto della riforma. Le regioni perdono potere e acquisiscono un'autonoma rappresentanza nella seconda camera, che non ha però un vero potere di indirizzo politico. Nel complesso la riforma costituzionale sembra realizzare un processo di poderosa "ricentralizzazione" dopo anni di retorica regionalista. È corretto dire che con la sua approvazione si chiuderebbe la stagione, non troppo gloriosa, del federalismo all'italiana?

Secondo me non si può ancora dire. La riforma, più che "ri-centralizzare" il potere politico, abbatte le garanzie rigide che la costruzione costituzionale - quella più recente, soprattutto - aveva previsto per le Regioni. È come se si dicesse loro: "O voi esistete come soggetti in grado di esprimere una vera vitalità politica a cominciare da quell’arena che è il Senato, e che oggi vi offre una proiezione nazionale, e quindi rendete politicamente costoso al centro non riconoscere o erodere le vostre competenze, oppure è bene che le perdiate." Insomma, è finito il potere di rendita. Il regionalismo nasce già nella Costituente da una scommessa ideologica. Le Regioni - a parte le speciali - sono state letteralmente inventate. Si è scommesso che ci fossero delle soggettività territoriali in grado di autogovernarsi e di esprimere indirizzi politici divergenti rispetto al centro. All'inizio degli anni 2000, dopo parecchi anni di retorica federalista, la Costituzione è stata modificata proprio per assicurare garanzie formali a questo fenomeno, che però non è mai decollato. In Italia, oggi, non esistono le "regioni" che la Costituzione presuppone: la riforma costituzionale non fa altro che sgombrare il campo da un equivoco, lasciando lo spazio alle regioni stesse per esprimere la propria identità e rivendicare il proprio ruolo attraverso la via politico-istituzionale e non quella di garanzia essenzialmente giuridico-costituzionale.

Tu denunci nel tuo libro la persistenza di retoriche - quella dell'eterna transizione, quella dell'anomalia italiana, quella della palingenesi... - che inquinano il dibattito sulle riforme e rendono difficile discutere laicamente anche della posta in gioco nel referendum. Però la battaglia politica sembra giocarsi su di queste, oltre che su quel referendum nel referendum rappresentato dal voto su Renzi.

È probabile che il dibattito sul referendum continui a ruotare intorno a queste retoriche. Io, al di là del dibattito, guardo al merito e penso che se la riforma passasse ci sarebbe un po' meno spazio anche per loro. Anche per questo ho scritto "Italia, si cambia": perché rimanga agli atti un approccio alla riforma che non dipende dall'iscrizione d'ufficio ad uno degli schieramenti in campo. Io infatti non faccio parte di nessuno dei comitati referendari, non firmo e non firmerò appelli e non voglio che la mia posizione sia utilizzata a fini di schieramento, di qualsiasi genere. Ma c'è anche un altro aspetto che si incrocia con questo. Quando discuto di questi temi, mi rendo conto che provare a giustificare certe soluzioni della riforma citando modelli stranieri non ha pressoché nessun effetto sul pubblico. L'atteggiamento fondamentale rimane: "Noi siamo un'altra cosa". Quindi, quello che accade altrove a noi non accadrebbe e viceversa. È quella che chiamo "retorica dell'eccezionalità"... Ovviamente se l'approccio è questo è difficile pensare di riformare qualcosa, perché di fatto si finisce per giustificare l'esistente: noi siamo così perché non possiamo che essere così. E allora è inutile fare le riforme, anzi qualunque riforma è una violenza alla nostra particolarissima natura.

Tu pensi che la cosiddetta Seconda Repubblica non sia tutta da buttare e che quell'embrione di democrazia competitiva favorita da leggi elettorali maggioritarie vada salvaguardato e sviluppato, non archiviato con il berlusconismo che è stato, nei fatti, la pietra angolare della costruzione bipolare. Però l'ultimo ventennio è stata una stagione di "basso rendimento" sul piano del governo, fino al quasi default del 2011. Questo si deve solo al fatto che le riforme elettorali non hanno trovato completamento in quelle istituzionali e costituzionali, ad esempio sulla forma di governo, oppure si deve anche (io direi sinceramente: soprattutto) al fatto che il mercato politico italiano è condizionato da una resistenza strutturale, cioè culturale, ai cambiamenti e da un'organizzazione del consenso tradizionalmente micro-particolaristica? Davvero possiamo dire ad esempio che in Italia, fino a Monti, non si è fatta una riforma delle pensioni degna di questo nome perché non si era resa nel frattempo più efficiente e moderna la forma di governo?

Sicuramente gli ingredienti necessari per una buona democrazia sono tanti. Conta ovviamente moltissimo la cultura politica, ma i comportamenti dei soggetti politici - siano essi i partiti o gli elettori - sono influenzati da vincoli e incentivi istituzionali. Ricostruire la vicenda dell'Italia degli ultimi vent'anni come un completo fallimento dell'impegno riformatore secondo me non è corretto. Ci sono stati passi avanti, contraddizioni, marce indietro. Nella prima metà degli anni '90 è stata fatta una riforma elettorale che incideva sulla formazione della rappresentanza: ebbene, non solo il quadro istituzionale è rimasto inalterato, ma i soggetti politici che dovevano interpretare il nuovo sistema, e che provenivano dalla stagione precedente, hanno, per giunta, fatto di tutto per neutralizzarne le potenzialità e ricondurne il funzionamento al vecchio canone super-parlamentarista. Come sarebbe stata diversa la storia d'Italia se nel '94 e soprattutto nel '98 il Presidente della Repubblica, alla caduta del governo nato dalle elezioni, avesse sciolto le camere, anziché affermare il principio che la formazione di una maggioranza pur che fosse giustificasse la prosecuzione della legislatura? Inoltre, non è vero che non sono state fatte riforme negli ultimi vent'anni. Il problema è che in genere sono state subito contro-riformate. È stata fatta perfino una riforma costituzionale, avversata e poi battuta nelle urne, per ragioni analoghe a quelle per cui anche quest'ultima rischia di soccombere. Era stata fatta anche una riforma delle pensioni, quella Maroni, da cui il governo successivo tornò indietro. Insomma, la Seconda Repubblica, con tutti i suoi fallimenti, è una stagione da cui prendere congedo non per tornare indietro, ma per andare avanti.

Abbiamo parlato di "retoriche". Tra tutte, quella più vincente è sicuramente quella anti-politica, anti-casta e alla fine anti-istituzioni. Questa è una retorica che aiuta o danneggia l'impresa delle riforme?

Le retoriche danneggiano sempre. La retorica della Casta, però, è l'altra faccia della retorica paternalista di una classe dirigente incline a pensare che le scelte politiche debbano essere sempre mediate e che la volontà popolare che si esprime in modo diretto, con una immediata forza di indirizzo o di decisione, sia di per sé pericolosa e irresponsabile. I cittadini percepiscono di essere trattati come minorenni, temono di essere usati e ingannati e reagiscono duramente.

Però una democrazia senza partiti non esiste.

Io non penso affatto a una democrazia senza partiti, ma bisogna intendersi sulla natura dei partiti e sul loro ruolo nei sistemi istituzionali. In Italia la cosiddetta "democrazia dei partiti" è finita con il crollo del muro di Berlino e con la crisi fiscale dello Stato dell’inizio degli anni ‘90. La partitocrazia non è stata la degenerazione di un sistema, ma la logica di un sistema, dove i partiti erano il mediatore (e intermediatore) tra la società e lo Stato. Il problema in Italia è che, caduta la Repubblica dei partiti, non ci sono istituzioni che favoriscano la formazione di nuovi partiti politici con funzioni diverse. Negli USA i partiti esistono, sono completamente diversi dai nostri, ed esistono sostanzialmente per gestire l'organizzazione del consenso rispetto alla scelta dei vertici politico-istituzionali, siano essi il Presidente o i membri del Congresso. Il problema è che da noi non c'è il momento istituzionale; il partito alternativo a quello tradizionale non può nascere perché non ha una funzione. Il modello di partito che non si identifica nelle istituzioni, ma serve istituzioni che hanno una vita propria, può nascere solo se ci sono delle istituzioni che “possano” avere una vita propria, e quindi una legittimazione diversa da quella che proviene esclusivamente dai partiti. Se noi avessimo un sistema presidenziale, i partiti in Italia rinascerebbero, in modo diverso, ma rinascerebbero, perché sarebbero funzionali alla competizione fondamentale per la Presidenza della Repubblica.

Nella discussione sul referendum c'è un elemento formalmente esterno, ma decisamente centrale, cioè l'Italicum. Se il referendum venisse approvato, non sarebbe preferibile, nel senso di più adatta e coerente al modello disegnato in Costituzione, una legge maggioritaria di tipo classico, uninominale a uno o due turni, piuttosto che una legge proporzionale con premio di maggioranza, che - a proposito di eccezionalità - rappresenta davvero quasi un unicum dal punto di vista istituzionale?

Ancora una volta, a questa domanda si può rispondere in due modi, a seconda che sia dia una valutazione in assoluto o relativa: in senso assoluto questa legge elettorale non è la migliore possibile, e ha elementi di sincretismo tra logica proporzionale e principio maggioritario che non aiutano uno sviluppo fisiologico del sistema politico. Però, ragionando in termini relativi, tra questa legge elettorale e una legge elettorale che non abbia almeno una componente maggioritaria, e quindi non spinga verso la creazione di maggioranze più o meno omogenee, io preferisco l'Italicum.

Facciamo le due ipotesi: se il referendum viene approvato, che cosa succede in Italia? E se viene bocciato?

Questa non è una domanda per un costituzionalista, ma per un politico o per un politologo. Tutto dipende da come verrà gestita la vittoria o la sconfitta da parte degli attori politici. Certo, se il referendum vince e il Presidente del Consiglio leggerà il risultato come un plebiscito nei propri confronti, si consoliderà l'attuale quadro politico. Viceversa, se il referendum non passa e il risultato sarà letto come colpo finale sull'era Renzi, si aprirà una fase di grande confusione. L'Italia rimarrebbe perfettamente bicamerale, ma si troverebbe con due leggi elettorali diverse e per certi versi opposte per Camera e Senato. Anche per questo sono favorevole al "Sì" e allo stesso tempo mi batto, nel mio piccolo, per disallineare la posizione sul referendum rispetto alle posizioni politiche, perché penso che, se vince il sì e se il sì viene gestito lealmente, apre uno scenario nuovo e può rappresentare un'opportunità anche per chi si è schierato per il "no".