Quirinale grande

Ritirata più o meno ufficialmente la candidatura di Berlusconi al Quirinale – al Quirinale, com’è noto, non ci si candida: Emma Bonino fa, radicalmente, storia a sé – è il caso di far notare che la sua eventuale ascesa al Colle coi voti di grillini e post-grillini sarebbe stata la chiusura di un cerchio: quello del grillismo, appunto, figlio incestuoso del matrimonio fra l’antiberlusconismo radicale della “seconda ondata” e il berlusconismo televisivo.

L’upgrade dal fax a Facebook, i girotondi, il popolo viola ecc. sono stati infatti ben capitalizzati da Grillo-Casaleggio mentre post-diessini e marxisti irriducibili sonnecchiavano o si facevano l’ennesima guerra intestina; e, quanto al “genitore due” del grillismo, cos’è lo stesso Grillo se non un Gabibbo che s’è preso sul serio? (Sia detto, questo, sul piano squisitamente ideologico, absit iniuria e body shaming verbis); in quest’ottica Rocco Casalino, figura paradigmatica dei circenses e del qualunquismo tele-berlusconiani, non fu la bizzarra anomalia del grillismo governista, quanto piuttosto l’imprescindibile portato di un codice genetico ben preciso.

Ad ogni modo, al di là del fiume di argomentazioni con cui gli ex nemici di Berlusconi – nel lungo termine espostisi tutti all’accusa d’esser schizofrenici: nei ’90 e nei primi 2000 “il Cavaliere” era un pericolo per la democrazia; poi la sua condotta turpe e immorale nella dimensione affaristica e privata gettava discredito sulle istituzioni; poi giunse la dédiabolisation, l’ex Presidente del Consiglio rappresentava l’argine popolarista al tandem nazionalpopulista che scalpita alla sua destra; adesso è tornato a essere “divisivo”, il patron di Fininvest e dunque l’uomo del conflitto d’interessi ecc. – al di là del fiume di argomentazioni, si diceva, con cui la sua candidatura è stata bocciata, due sono le motivazioni essenziali per cui il Quirinale non è e non potrebbe mai essere il suo posto, una di ordine per così dire pratico, l’altra di ordine spirituale; si tratta rispettivamente della sua inadeguatezza – primariamente anagrafica, poi magari caratteriale, visto che di questi tempi quando si valuta la presidenziabilità di chicchessia lo si deve fare nella prospettiva del worst case scenario (in brevissimo: trionfo di forze antisistema), di fronte al quale bisogna avere più pazienza e freddezza mattarelliane che verve e impeto da self-made man berlusconiani; e poi si tratta della… profanazione del Quirinale stesso che un eventuale insediamento dell’ex Presidente del Consiglio inevitabilmente rappresenterebbe, anche agli occhi dell’osservatore quanto più lontano possibile dal radicalismo antiberlusconiano che promana da quasi trent’anni dalle redazioni del Gruppo Espresso e poi, perfino più faziosamente e screanzatamente, da quella del Fatto Quotidiano.

(Non è, beninteso, un’osservazione valida ad personam: “profanerebbe” il Quirinale, nel senso assai soft in cui si sta usando questo verbo, anche un D’Alema, per motivi simili e diversi, perché troppo alti e troppo “terzi” sono stati i profili degli ultimi tre Capi dello Stato; Berlusconi, purtroppo per lui, non fu solo il discorso di Onna e quello al Congresso USA e la “pace di Pratica di Mare”).

Con un po’ di retorica romantico-nazionalista si potrebbe infatti affermare che il Quirinale sia un luogo sacro. Non c’è unanimità, fra storici e sociologi della religione, circa la reale intenzione con cui un luogo di culto viene convertito a un nuovo culto – sia esso religioso o… laico – dopo una conquista, i più dicono si tratti della più tracotante manifestazione di dominio esercitata ai danni dei conquistati; altri, controintuitivamente, vi scorgono invece un omaggio ai conquistati (!) e al senso di continuità della storia; sta di fatto che si vocifera che Pio IX, ultimo papa a soggiornare al Quirinale prima della breccia di Porta Pia e della conseguente conversione dell’edificio (appunto…) al luogo di residenza della famiglia reale, maledisse il palazzo e tutti gli usurpatori che l’avrebbero abitato. Enrico De Nicola, primo Presidente della Repubblica, prese la cosa sul serio e preferì non trasferirvisi; Einaudi e Gronchi ci andarono a malincuore, poi la superstizione deve aver progressivamente perso mordente di settennato in settennato.

Viste le travagliate vicende del Secolo Breve, è più realistico ritenere che l’anatema abbia gravato sul mondo intero piuttosto che sui singoli inquilini del Quirinale (e che quindi un anatema non ci sia stato o comunque che non sia riuscito a dispiegare i suoi effetti) – abitare un palazzo maledetto dovrebbe stepehenkinghianamente far perdere il senno a chi lo abita: in quest’ottica la maledizione non funzionò neppure con Cossiga, sia perché al più fu il crollo del muro di Berlino a farlo impazzire nell’ultimo biennio del suo settennato, sia perché, come rivelò al quirinalista Marzio Breda nell’Agosto del 2009, «facevo il matto per poter dire la verità, come il fool del teatro elisabettiano» (quindi non si sa dove finissero ciclotimia e bipolarismo, mai diagnosticate ufficialmente, e dove iniziasse la strategia politica).

Se una maledizione (funzionante) c’è stata, è più probabile che sia stata lanciata da Vittorio Emanuele II: molti dei dodici Presidenti avvicendatisi al Quirinale, a partire proprio da De Nicola ed Einaudi, erano monarchici (che paradosso… o forse che maledizione); tutti o quasi – ben prima di “Re Giorgio” (Napolitano), appunto, giornalisticamente assurto a tale status in seguito all’operazione Monti e, in particolare, in seguito alla controversa sentenza 1/2013 della Consulta che ha interpretato l’immunità del Capo dello Stato in senso assai estensivo – sono stati chi più chi meno costretti a una sovraesposizione politico-istituzionale che fa pensare, oltreché a presidenzialismo e semipresidenzialismo, anche ai monarchi pre-novecenteschi.

Fra gli altri, Cossiga venne scelto proprio in virtù del suo profilo defilato e taciturno, veniva chiamato il “sardomuto”, per poi invece diventare “il picconatore” e, secondo Filippo Ceccarelli, “lo sciamano”; Scalfaro venne eletto in una prospettiva anti-cossighiana, proprio in virtù delle sue posizioni strenuamente parlamentariste e dunque antipresidenzialiste, e si ritrovò a reggere il sistema durante le gesta cripto-golpiste del pool di Mani Pulite e a patrocinare ben due ribaltoni, a bocciare Previti in via Arenula e molto altro ancora. E si potrebbe continuare, da Scalfaro in poi o indietro fino a Einaudi, passando per Pertini e Leone.

Sul piano del simbolismo e delle assonanze è in realtà e ancora una volta il parallelismo fra Presidenti e Papi – più che di un anatema, forse, si tratta di un legato – a fornire gli elementi più interessanti. Sempre Marzio Breda, nel suo Capi senza Stato (Marsilio, 2022), riporta una dichiarazione che il cardinale Giovanni Colombo rilasciò al Corriere della Sera nel ’66: «la nostra logica esige che molte cose rimangano nel vago onde possano prendere forma col tempo, secondo le epoche e le esigenze della Chiesa». Di cosa parlava, se non (anche) del Capo dello Stato per come è disciplinato nella nostra Costituzione? E ancora, apprendiamo sempre da Breda che Bernardo Mattarella e Maria Buccellato battezzarono il quartogenito “Sergio” guardando a un papa palermitano del VII secolo, Sergio I, che «ricompose controversie e discordie e avrebbe preferito morire piuttosto che approvare gli errori» (un nome, un destino).

Non ci resta che sperare in una pronta fumata bianca che ci consegni un Papa – pardon, un Capo dello Stato – autorevole e abile quanto il suo predecessore.