Galli Della Loggia big 

Dopo l’ammissione di aver votato il Movimento 5 Stelle non ci stupisce lo sdoganamento di Fratelli d’Italia come immaginifica destra moderna e di governo compiuto da Ernesto Galli Della Loggia dalle colonne del Corriere della Sera. Un sostegno che non meraviglia, ma che suona al contempo sbalorditivo se letto in concomitanza con la notizia che la sezione giovanile del movimento di Giorgia Meloni abbia celebrato l’anniversario della morte di Leon Degrelle, nazista considerato il “figlio adottivo” di Hitler.

Uno sdoganamento che conferma - a cent’anni di distanza - le ragioni del paese mancato illustrate da Piero Gobetti: il passato che non passa, la perenne autobiografia di una nazione, il perché un’etica liberale non abbia mai potuto attecchire nella cultura italiana. Per Della Loggia, oggi non sarebbe più possibile considerare Fratelli d’Italia un partito neofascista, “pur se esso viene da territori della storia che portano quel nome” (il che non ci sembrerebbe una premessa da poco, ma tant’è). “Al massimo” – afferma Della Loggia – “la sua lontana origine si manifesta oggi in una postura difensiva contro le smargiassate dell’antifascismo di professione”.

In sostanza, Fratelli d’Italia come gradito argine contro la boria progressista che sentiamo chiamare radicalismo chic. Non contro le assurde pretese di revisione della Storia o i paradossi di certo egualitarismo - per dire di due discutibili tendenze progressiste - ma contro la superbia di per sé.
“Quanto invece al rispetto da parte di Fratelli d’Italia delle regole della democrazia fissate dalla Costituzione” – prosegue il professore dalle colonne del primo quotidiano nazionale – “mi sembra che non possano esserci dubbi.” Niente dubbi?

Il più efficace test di rispetto delle regole costituzionali degli ultimi anni si è tenuto nel maggio 2018, in occasione del rifiuto del Presidente Mattarella di nominare Paolo Savona come Ministro dell’Economia e delle Finanze del primo Governo Conte.
I due movimenti che calpestarono la Carta invocando (in maniera imbarazzante) la messa in stato d’accusa di Sergio Mattarella per attentato dalla Costituzione (quello che volgarmente sentiamo chiamare impeachment) furono proprio il M5S e Fratelli d’Italia. Persino Salvini superò quel test.
In fondo, “è la democrazia come ideologia” il problema per Della Loggia, “che può essere condivisa o no, senza che per questo si diventi dei nemici delle sue regole”.

Espressione furba - “democrazia come ideologia” - funzionale a giustificare pure le critiche più aspre alla democrazia e magari ad assolverle pure quando si tramutino in eccessi. Nel deserto politico che è il nostro Paese ecco allora che Fratelli d’Italia diventa la forza più indicata per incarnare “l’anima di una destra conservatrice” auspicabilmente intrisa di una “forte cultura nazional-istituzionale centrata sulla dimensione dello Stato”.

Una rinnovata liturgia dello Stato che aiuterebbe a “distinguere nettamente tale destra vuoi dal populismo leghista e dal suo empito plebiscitario sempre insofferente di qualsiasi regola, vuoi dal permissivismo del laissez-faire a sfondo individualista di quel che rimane del liberalismo di Forza Italia”.
Una disperata richiesta di aiuto, quella di Della Loggia, per mantenere la coesione e la solidarietà sociali contro “gli effetti della globalizzazione”. Perché “contro l’ideologia e la prassi deregolatrice di quest’ultima, contro le sue molteplici conseguenze distruttive dalle quali le élite tradizionali sembrano fin qui incapaci di dissociarsi, solo lo Stato ha il potere e la legittimazione necessarie per dettare regole limitatrici”. E poi, infine, una bella stoccata a tutti i liberali veri.

La premessa - oramai un po’ stantia - è che la sinistra e i progressisti siano colpevoli di essere scesi a patti col diavolo, mettendosi a difendere quella porcheria che siamo soliti chiamare capitalismo. Globalista, per di più. Persino Adam Smith, dice Della Loggia, ammonì contro le derive del capitalismo, affermando che «il saggio del profitto è sempre ai suoi livelli massimi nei Paesi che precipitano verso la rovina». Come a dire che il capitalismo e la ricerca del profitto portino di per sé alla depravazione e all’impoverimento delle nazioni.

Peccato che in quel passaggio della “Ricchezza delle nazioni”, l’economista scozzese stesse riferendosi ai paesi a basso indice di capitalismo, ossia a basso sviluppo di mercato e concorrenza e ad alto tasso di sfruttamento della manodopera, di corporativismo e monopolio. Smith non stava, cioè, affermando che il capitalismo (e la ricerca del profitto) fossero la causa della rovina dei paesi. Ma che l’alto profitto monopolistico (in stile Venezuela, per dire) fosse tipico di un paese di per sé molto povero o dalle istituzioni fragili e corrompibili.

Non si tratta di una critica al capitalismo (che coi regimi dittatoriali e monopolistici non ha nulla a che vedere) o alla globalizzazione, ma dell’auspicio, semmai, che il capitalismo (quello vero, cioè, quello che sparge ricchezza) potesse espandersi riducendo i monopoli e le concentrazioni.
In quel passaggio Smith sta infatti riferendosi a paesi come il Bengala: «Le grandi fortune così rapidamente e facilmente acquistate nel Bengala, e negli altri stabilimenti inglesi delle Indie Orientali danno convincente prova che come i salari del lavoro sono molto bassi, così i profitti del capitale sono molto alti in quei rovinati paesi» (Ricerca sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Cap. IX, De’ profitti del capitale, Vol. 2, p. 65, Cugini Pomba, Torino, 1851).
Diverso il caso in cui il capitalismo si sia diffuso. In tali paesi «La concorrenza perciò sarebbe in ogni dove per quanto è possibile grande, e per conseguente l'ordinario profitto per quanto possibile basso»” (ancora pag. 65).

La ricetta di Della Loggia si sviluppa quindi nell’ennesimo attacco al progressismo globalista e, al contempo, nell’invito ad essere reazionari rivolto ai conservatori. Da un lato, il progressismo è reo di “abbracciare qualsivoglia esigenza della modernità, per identificarsi sempre con la ragione strumentale tecno-scientifica, per aderire al democraticismo universalistico del mainstream socio-culturale e al suo sforzo di allargare la sfera di ogni libertà individuale delegittimando qualsiasi vincolo che si opponga ad essa”.

La destra conservatrice, invece, “dovrebbe muoversi in senso decisamente anche se cautamente contrario” rispetto a tali tendenze, “curando gli argini che si oppongono alla disgregazione culturale e dunque favorendo il senso della tradizione, la conoscenza del passato, l’uso della scrittura, la conservazione degli ambienti urbani abitativi e dei paesaggi, il valore della dimensione religiosa al di là di ogni confessionalismo”.
Il professore conclude riconoscendo di essere consapevole, lui per primo, “che ipotizzare che possa nascere nel nostro Paese una destra del genere, e ancora di più che possa essere Fratelli d’Italia a darle vita, richiede un livello altissimo di immaginazione (e anche di ottimismo)”.

A noi pare più una questione di ingenuità. Come diceva Piero Gobetti, “la lotta tra serietà e dannunzianesimo è antica e senza rimedio”.