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Da qualche anno si discute inutilmente del riequilibrio della spesa previdenziale attraverso un parziale ricalcolo dei trattamenti retributivi. La motivazione non è solo la necessità di reperire “intra-welfare” risorse necessarie per interventi in Italia negletti (ad esempio le politiche pro family), ma anche di ristabilire il principio che il sussidio pubblico implicito nella pensione in tutti i sistemi solidaristici, a partire dal generoso “retributivo”, va rapportato e obiettivi di solidarietà di ordine generale.

Se la solidarietà previdenziale diventa un diritto acquisito e altre forme di solidarietà sociale diventano poste rinunciabili o azzerabili al bisogno, allora il sistema non è più solidaristico, ma discriminatorio.
Al di là di qualche piccolo intervento – contributi temporanei “di solidarietà” sulle pensioni più alte – questo ridisegno si è regolarmente infranto contro la resistenza di forze politiche condizionate da un trasversale e numerosissimo “partito dei pensionati” e contro una giurisprudenza particolarmente restrittiva della Corte Costituzionale.

Al contrario, negli ultimi anni – quota cento, blocco dell’adeguamento dell’età pensionabile alla speranza di vita – la spesa o lo sbilancio previdenziale sono tornati a salire e a privilegiare socialmente lavoratori e ex lavoratori tutt’altro che poveri, con carriere contributive regolari. La Ragioneria dello Stato ha stimato che gli anticipi pensionistici del triennio di quota cento costeranno complessivamente 63 miliardi di maggiore spesa previdenziale fino al 2036, 0,2 punti di Pil all’anno.

Il taglio dei vitalizi dei parlamentari non è stato l’inizio dell’inversione di questa tendenza, ma al contrario l’alibi simbolico offerto al voto di scambio previdenzialistico tra elettori e eletti, il sacrificio umano celebrato per placare le ire del popolo sovrano e decretarne la sovrana innocenza. Tutte le colpe sono della politica e dei politici, tutti gli sperperi sono loro ruberie, solo loro devono pagare in modo esemplare.

Facendo finta di prendere sul serio il cosiddetto “taglio dei vitalizi” come una misura di equità, magari sbagliata nei modi e eccessiva negli esiti, ma in fondo buona e lodevole nei propositi, si finisce per fare i servi sciocchi o direttamente i kapò del razzismo antiparlamentare, i “tecnici” della decimazione esemplare o del sacrificio rituale di qualche centinaio di ottanta-novantenni, immolati all’odio e all’invidia sociale della piazza.

Il taglio dei vitalizi, in misura pari anche all’80 per cento dei trattamenti in precedenza percepiti, è stata una misura di pulizia etnico-politica e di razzismo di casta, contro i nuovi paria della democrazia. Ricalcolare le pensioni retributive solo agli ex deputati e senatori, secondo una misura assurda e deliberatamente punitiva e non a milioni e milioni di italiani è come imporre una misura di tassazione su base nazionale e religiosa: solo per gli ebrei, solo per i musulmani, solo per i neri, solo gli stranieri.

L’aspetto più repellente di questa misura è che a deciderla siano stati i parlamentari di oggi contro i parlamentari di ieri, in modo tale da evitare che uscisse dal raggio dello scudo dall’autodichia e potesse essere portata di fronte alla Corte costituzionale e essere ovviamente rottamata per quella che è: un puro prodotto dell’odio e della cattiva coscienza, un patto di violenza tra elettori e eletti a danno delle vittime offerte in sacrificio per tutti.
Difendere il Parlamento, la funzione e la dignità parlamentare, con questi deputati e senatori è un esercizio paradossale. Perché significa in primo luogo difenderlo da loro, e dalla loro disponibilità criminale a farne una succursale della piazza o, direttamente, uno strumento della forca antidemocratica.