Settantaquattro anni dopo, a scorrere l’elenco dei personaggi eccellenti che nel referendum del 1946 scelsero di schierarsi per la monarchia, per ragioni che avevano per lo più a che fare con la diffidenza nella maturità democratica dell’Italia e non con la devozione ai Savoia, e a confrontarlo con le leadership dell’Italia repubblicana che aspirano a succedere a Sergio Mattarella, la scelta di Benedetto Croce, Enrico Di Nicola o di Luigi Einaudi pare con gli occhi di oggi assistita da una particolare forza profetica. È vero che la progenie del Re di maggio non ha dato prove di particolare brillantezza, ma i pretendenti al trono repubblicano che s’avanzano alle spalle di Mattarella non sembrano dotati di particolare tempra e virtù.

Se la scelta della Repubblica era una scelta di “garanzia democratica” la storia repubblicana si è incaricata in parte di smentire questa speranza (proprio dal Quirinale Scalfaro e Cossiga hanno l’uno tentato, e l’altro realizzato veri e propri oltraggi alla legalità costituzionale) e in ogni caso di escludere che l’accesso non ereditario alle stanze del Quirinale mettesse la democrazia italiana al sicuro da ogni pericolo.

In quest’ultima legislatura, il voto sulla Presidenza della Repubblica è diventato da oltre un anno l’alibi di un governo di continuità populista, che continua a fare tutto quello che Salvini aveva deciso andasse fatto all’Italia e dell’Italia, ma che è risoluto a rimanere in carica fino all’ultimo giorno di legislatura, con la missione patriottica di impedire a Salvini (che peraltro nel 2022, come Gigliola Cinquetti, non avrebbe ancora l’età) di mettere le mani sul sommo scranno della Repubblica. Così il Quirinale nella retorica politica è diventato, da luogo in cui si compie l’unità costituzionale della Repubblica, l’alibi che consente di trascinare l’unità populista di una delle più paradossali e disgraziate legislature repubblicane.

Di tutte le buone e sacrosante ragioni e opportunità per diventare una Repubblica – e non semplicemente una non-monarchia – l’Italia ne ha colte e meritate ben poche, in questi decenni, rimanendo nel suo funzionamento istituzionale e nei suoi processi politici “profondi” legata a un modello di infedele sudditanza e non di leale cittadinanza, appresa in lunghi anni di dominazione straniera e mai del tutto dismessa neppure dopo l’indipendenza. Continuiamo a inseguire il sogno di avere un Re che faccia il bene del popolo, non l’ambizione di essere un popolo che si faccia il bene da sé. Anche l’intensità della febbre populista in Italia rispetto agli altri paesi europei è un sintomo di questa antica malattia.

E per ironia della storia, l’ultimo della lunga serie di autoproclamati sovrani amici e salvatori del popolo, quello senza corona ma con la pochette, è uno dei candidati (o auto-candidati) più autorevoli alla presidenza di quella Repubblica, che non siamo mai riusciti a diventare.

@carmelopalma