schuman grande

Il COVID-19 ha rimesso in bocca a certi politici, giornalisti e a parte dell’opinione pubblica quesiti quali: cosa fa «l’Europa» per noi? Perché gli Stati del nord dovrebbero pagare i debiti degli Stati del sud?

Queste domande non sono molto diverse da quelle che i sovranisti pongono al loro elettorato di fronte ai grandi flussi migratori (dov’è «l’Europa»? perché dobbiamo accollarci da soli il «debito» migratorio?) e l’uso che se ne fa è praticamente lo stesso: dimostrare che è meglio un’Europa in cui ogni Stato fa per sé.

Quindi, al bando l’idea di una solidarietà europea di fronte alle richieste di Italia, Spagna, Francia e altri sei compagni di sventura.
In effetti, che senso ha cominciare a discutere oggi di solidarietà tra Stati membri dell’UE, rispetto a un’emergenza sanitaria e socio-economica che ne mette in difficoltà solo alcuni, forse più sprovveduti? È vero, non c’è proprio da discuterne. Perché l’Unione della solidarietà è già qui.  Da almeno 18 anni, cioè da quando sono stati creati il fondo europeo di solidarietà (2002) e il fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione (2007).

Il fondo europeo di solidarietà, nato per rispondere ai disastri naturali e causati dall’uomo, ha consentito la ricostruzione nelle zone terremotate in Abruzzo e in Italia centrale nel 2009 e nel 2017. Ma è stato anche moblitato - non meno di quattro volte tra il 2002 e il 2013 – nelle aree colpite da inondazioni in Germania ed Austria, che si sono opposti ad un approccio «solidaristico». In queste settimane la Commissione europea ha rapidamente modificato la struttura del fondo in modo da poterlo utilizzare anche per la pandemia, caso originariamente non previsto.

Il fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione, che aiuta i lavoratori colpiti dalle ristrutturazioni delle imprese dovute a crisi economiche globali, è stato utilizzato ripetutamente dall’Olanda, anch’essa esitante sulla strada della solidarietà europea. È stato usato, ad esempio, per tamponare gli esuberi nel settore del commercio al dettaglio causati dall’avanzare delle vendite online, perché le banche nazionali non avevano risorse sufficienti da destinarvi; nonché per sostenere le stesse banche, nel momento in cui si è passati massicciamente ai servizi finanziari online. Non mi stupirei che anche gli interventi di questo fondo fossero estesi per supportare le gravi perdite generate dalla chiusura forzata delle imprese nel periodo dell’emergenza sanitaria.
È questa la logica che sta dietro a molte misure dell’Ue già prima del 2002, addirittura dai Trattati di Roma.

Negli anni Ottanta del secolo scorso, l’evoluzione dei fondi strutturali e della politica di coesione si è posta come obiettivo di riequilibrare i ritardi di sviluppo di alcune regioni europee, per rafforzare la società e l’economia dell’Ue nel suo complesso. Parlo di quei fondi strutturali molto spesso «restituiti» a Bruxelles dalle regioni italiane che non sono in grado di spenderli, e che ora potranno essere utilizzati per far fronte all’emergenza COVID-19 grazie a una modifica adottatta in tempi record dalla Commissione europea.

Dunque, perché dire sì a un’Unione della solidarietà ? Perché si chiama «Unione» europea e non «bancomat». Questo significa che non si va a Bruxelles giusto quando si deve battere cassa, ma si mettono insieme le risorse necessarie a far funzionare l’Unione, a renderla più forte e integrata, e a reagire come Ue agli eventi imprevisti che la colpiscono al cuore. E ciò, non per la logica dell’ «oggi a me, domani a te» - se c’è un «me» e un «te» in una Unione, c’è poi soprattutto un «noi» – ma perché il territorio dell’Ue non ha barriere interne che possano arrestare un virus o un incendio, e perché le economie degli Stati membri sono completamente interconnesse. Ed è cosi’, perché gli Stati che hanno via via aderito all’Ue hanno voluto che fosse così. Nessuno Stato fu mai costretto a partecipare al progetto europeo.

Non c’è dunque nessuna ragione per opporsi ora all’idea di un’Europa della solidarietà. Neanche si dovrebbe parlare di misure eccezionali di solidarietà, ma di misure ordinarie necessarie per il benessere della stessa Ue. I governi che mettono in dubbio questa idea (oggi come in altre circostanze), non solo non riflettono lo spirito dei Trattati da loro firmati, ma – cosa più grave - raccontano ai cittadini, o meglio agli elettori, una storia che non è quella dell’Unione.

«L’Europe ne se fera pas d’un coup, ni dans une construction d’ensemble. Elle se fera par de réalisations concrètes, créant d’abord une solidarité de fait» (Robert Schuman, discorso per la firma del Trattato istitutivo della CEE)