La competenza dell’Unione europea in politica estera e sicurezza comune (PESC) è debole e sfuggente perché così l’hanno sinora voluta i Paesi membri. Come sappiamo, l’Unione europea si fonda sui trattati stipulati fra i Paesi aderenti, in un processo di integrazione progressiva che si suole definire “funzionalista”, cioè attuato mediante il graduale trasferimento di compiti e funzioni in settori ben determinati a istituzioni indipendenti dagli Stati (cd. sector by sector approach).

Le competenze attribuite in via esclusiva all’Unione europea sono oggi delineate all’art. 3 TFUE: unione doganale, regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno, politica monetaria per gli Stati membri che adottano l'euro, conservazione delle risorse biologiche del mare, politica commerciale comune, conclusione di accordi internazionali a certe condizioni.

L’Ue ha inoltre competenza concorrente con quella degli Stati membri nelle materie del mercato interno, della politica sociale, della coesione economica, sociale e territoriale, dell’agricoltura e pesca, dell’ambiente, della protezione dei consumatori, dei trasporti, delle reti transeuropee, dell’energia, della libertà, sicurezza e giustizia, della sicurezza in materia di sanità pubblica.

La politica estera non viene contemplata in tale riparto di funzioni, ma non viene nemmeno lasciata alla competenza esclusiva degli Stati membri. Nel Preambolo del Trattato istitutivo dell’Unione europea i Paesi membri hanno solennemente affermato di voler “attuare una politica estera e di sicurezza comune che preveda la definizione progressiva di una politica di difesa comune, che potrebbe condurre ad una difesa comune, rafforzando così l'identità dell'Europa e la sua indipendenza al fine di promuovere la pace, la sicurezza e il progresso in Europa e nel mondo”.

A tale materia hanno poi dedicato un’apposita sezione del Trattato, delineando una competenza ibrida e, per questo, poco efficace (Titolo V, artt. 21 e ss. TUE). Il cardine del sistema è l’art. 24 TUE: “La competenza dell'Unione in materia di politica estera e di sicurezza comune riguarda tutti i settori della politica estera e tutte le questioni relative alla sicurezza dell'Unione, compresa la definizione progressiva di una politica di difesa comune che può condurre a una difesa comune”.

Norma programmaticamente molto ambiziosa, ma all’atto pratico resa improduttiva dal filtro posto nel periodo successivo della norma: “La politica estera e di sicurezza comune è definita e attuata dal Consiglio europeo e dal Consiglio che deliberano all'unanimità”, con esclusione espressa dell’adozione di atti legislativi e del giudizio della Corte di Giustizia in merito. Ne esce una competenza che, all’atto pratico, nella sua realizzazione, è appunto ibrida, sfuggente e debole. Ciò per tre ragioni principali.

In primo luogo perché la definizione degli ambiti di politica estera dell’Ue è lasciata al metodo intergovernativo: il Consiglio europeo, chiamato a individuare gli interessi strategici, gli obiettivi e gli orientamenti generali dell’Unione in politica estera, è composto dai capi di Stato o di governo dei Paesi membri, mentre il Consiglio, chiamato ad elaborare la politica estera e di sicurezza comune prendendo le decisioni necessarie a dare attuazione agli orientamenti generali definiti dal Consiglio europeo, è l’organo che rappresenta i governi dei Paesi membri.

La seconda ragione per cui all’atto pratico la politica estera dell’Ue è inefficace discende dal fatto che la sua realizzazione è demandata sia all’Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (ruolo rivestito nella precedente legislatura da Federica Mogherini), sia agli stessi Stati membri, che saranno sempre portatori di interessi contrapposti (si pensi alla competizione fra l’italiana ENI e la francese Total in Africa, all’appoggio della Francia al generale Haftar e al bombardamento della Libia nel 2011, per non parlare del caos diplomatico fatto di interventi in ordine sparso di questi giorni).

Infine, la regola dell’unanimità posta per le decisioni del Consiglio europeo e del Consiglio e il conseguente potere di veto che ne discende per ciascun Paese membro fanno il resto per rendere sfumata e inconcludente una seria azione in politica estera dell’Unione.
A poco conta, quindi, rimanendo solo una bella petizione di principio, quanto scritto al comma 3 dell’art. 24 del TUE: “Gli Stati membri sostengono attivamente e senza riserve la politica estera e di sicurezza dell'Unione in uno spirito di lealtà e di solidarietà reciproca e rispettano l'azione dell'Unione in questo settore. Gli Stati membri operano congiuntamente per rafforzare e sviluppare la loro reciproca solidarietà politica. Essi si astengono da qualsiasi azione contraria agli interessi dell'Unione o tale da nuocere alla sua efficacia come elemento di coesione nelle relazioni internazionali. Il Consiglio e l'alto rappresentante provvedono affinché detti principi siano rispettati”.

Per dare al continente una seria politica estera e consentire all’Europa di essere influente sullo scacchiere internazionale al pari delle altre grandi potenze (Stati Uniti, Russia, Turchia, Cina) serve dunque un grosso scatto in avanti di integrazione, un grande atto di volontà politica che porti ad annoverare la politica estera, almeno in certi ambiti, fra le materie di competenza esclusiva di cui all’art. 3 TUE, facendo dell’Alto rappresentante un Commissario a tutti gli effetti.

@p_cecchinato