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Per decenni, lo spettro del fascismo ha rappresentato il principale grimaldello brandito da diverse forze politiche, specialmente a sinistra, per gettare discredito sugli oppositori, soprattutto quando questi rivestivano cariche istituzionali e di Governo. Uno spauracchio che, con il tempo e i ricorsi sempre più frequenti e grotteschi, ha finito per perdere efficacia e credibilità. Qualcuno, privo di senso della misura e del pudore, arrivò persino a denunciare una fantomatica deriva autoritaria in occasione del referendum di riforma della Costituzione propugnato da Matteo Renzi nel 2014, pur di sferrare un attacco politico all’ex segretario dei democratici.

Tuttavia, come da tradizione, il grido “al lupo! Al lupo!” assume spesso i connotati di una profezia che sia autoavvera. A tirarlo in ballo con così tanta insistenza e per i motivi più futili, perdendo la capacità di discernere tra ciò che può legittimamente suscitare preoccupazioni per lo stato di salute di una democrazia e ciò che semplicemente non è gradito a una parte politica, il fascismo con cui il Paese non ha mai veramente fatto i conti riemerge in modo allarmante, in una delle sue tante vesti: non come esperienza storica irripetibile, date le mutate condizioni sociali e politiche, ma come metodo di repressione violenta del dissenso e concezione dello Stato, che da cosa pubblica diviene “cosa privata”, strumento piegato e asservito, nei suoi organi e nelle sue istituzioni, al volere di un leader, che non governa ma comanda.

Quel che sta accadendo durante il tour balneare di Matteo Salvini, con i suoi comizi elettorali sulle spiagge più turistiche del Mezzogiorno, è sintomatico della pericolosa china in cui è scivolato il Paese. Di fatti, se la soglia del rispetto delle garanzie costituzionali a tutela degli individui è stata già ampiamente varcata da tempo e in più occasioni - con lo scandalo della Digos impiegata per rimuovere dalle abitazioni private di alcuni cittadini gli striscioni di critica all’operato del Ministro degli Interni - gli eventi della tappa del 10 agosto a Soverato, a cui chi scrive era tristemente presente, segnano un nuovo e preoccupante passo verso una deriva a dir poco giacobina.

La netta sensazione di chi era presente - e spera vivamente di sbagliare - è che la carica della polizia sui contestatori di Salvini, numerosi e rumorosi ma assolutamente pacifici, fosse chiamata dal palco del comizio, con tempismo spaventoso e che lascia intendere un preoccupante grado di premeditazione e intesa tra gli organizzatori della manifestazione leghista e gli agenti della Digos, presenti tra la folla in quantità che non trovano spiegazione e giustificazione, vista l’entità e la portata modeste dell’evento. “Avete dieci secondi per togliere lo striscione”, ha ammonito un esponente locale della Lega che, poco dopo, ha gridato “state schiacciando le persone, criminali!”: un casus belli pretestuoso, che aveva tutta l’aria di essere recitato da copione.

Non vi era alcun pericolo che i tanti contestatori potessero mettere a repentaglio l’incolumità dei sostenitori di Salvini raccolti sotto al palco. Il rischio, semmai, era che il Ministro degli Interni non riuscisse nemmeno a iniziare il comizio per via dei fischi e dei cori che coprivano la sua voce al punto di renderla inaudibile alla platea. Il problema, dunque, è stato convenientemente risolto a colpi di manganello, seminando il panico e mettendo in fuga i tanti cittadini di Soverato accorsi per rivendicare il diritto di dimostrare pacificamente al Ministro degli Interni che queste terre non dimenticano gli insulti da cui sono state ricoperte, fino a un paio di anni fa, da un demagogo privo di senso del pudore, che ora posa con la maglietta “I love Calabria”: quella stessa Regione che, in alcune dichiarazioni del 2015, lo faceva “vergognare di essere italiano” (sic.)

È inevitabile constatare come un uso così spregiudicato e personalistico, per giunta in contesti elettorali, delle Forze dell’Ordine da parte di un membro così rilevante del Governo non abbia precedenti nella storia della Repubblica. Si tratta dello stesso membro del Governo - vicepremier e, da sottolineare, titolare del dicastero responsabile dell’ordine pubblico - che, solo pochi giorni fa, ha chiesto agli italiani di essere investito di “pieni poteri”: un cupo tuffo nel passato dell’Italia del ‘22 e della Weimar del ’34.

Malgrado la Lega si attesti al suo massimo consenso storico, qualcosa, nella luna di miele tra Matteo Salvini e una fetta importante dell’elettorato italiano, sembra già essersi incrinata. Oltre al fatto che il leader della Lega ha costantemente puntato a polarizzare ed esacerbare il dibattito, provocando reazioni impetuose da parte dei suoi oppositori, appare sempre più evidente lo scollamento tra il racconto comunicativo che Salvini fa di sé e del suo progetto politico e la realtà.

Esattamente come tutti i fenomeni social, per loro definizione effimeri e passeggeri, Salvini si troverà, in un futuro prossimo, a scoprire che il selfie con la Nutella e il rosario brandito come un amuleto sciamanico (che urta non poco la sensibilità cattolica del Paese) non potranno più arginare il malcontento per l’IVA che aumenta - comportando in media 540 euro l’anno di esborso in più per le famiglie - la flat tax che resta una chimera, le accise sui carburanti che non vengono minimamente intaccate e la percezione della sicurezza che rimane tristemente bassa per via del clima di terrore ingiustificato che il Ministro degli Interni stesso ha contribuito ad aizzare con un’allarmante caccia alle streghe.

Per ricorrere a quel gergo popolare tanto caro allo stesso Salvini, “chi semina vento raccoglie tempesta”, e chissà che i primi tuoni non si abbattano sulla Lega proprio con questa crisi di Governo indotta a ferragosto con la speranza di sottrarsi alla responsabilità di una legge di bilancio lacrime e sangue e di raccogliere subito dei frutti che, tra qualche mese, potrebbe già essersi volatilizzati.