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Davvero l’Europa ha bocciato l’Italia? E perché? La reazione italiana al consueto Country Report sul nostro paese è stata di estrema polarizzazione: i sostenitori del governo ne hanno sminuito l’importanza, le opposizioni vi hanno trovato la conferma di un giudizio sostanzialmente negativo sull’esecutivo gialloverde. Il rapporto, però, non esprime una valutazione politica: fa, piuttosto, un assessment sulla situazione economica di ciascuno Stato membro con l’obiettivo di garantire il coordinamento delle politiche di bilancio e perseguire la riduzione degli squilibri macroeconomici (nei casi in cui sia necessario, come l’Italia).

La relazione fa il punto su dove ciascun paese sta e dove sta andando, con particolare riferimento al parametro su cui si regge l’architettura europea: il rapporto tra debito pubblico e Pil. E’ su questo che l’Italia viene messa in guardia: «non ci attendiamo che gli squilibri esistenti si riducano nel breve termine, e potrebbero addirittura aggravarsi». Anche se la Commissione non scende mai sul terreno della politica, è evidente che la preoccupazione deriva in parte dalla dinamica insoddisfacente degli ultimi anni – quando il debito avrebbe dovuto calare – ma soprattutto dagli effetti che le più recenti scelte potrebbero produrre. Infatti, «il bilancio si affida a stimoli di breve termine dal lato della domanda anziché a riforme dal lato dell’offerta… [che] potrebbero avere un importante effetto sulla crescita di lungo termine».

In sostanza, l’esecutivo europeo rileva che, di fronte a problemi antichi e strutturali, l’Italia non solo è storicamente latitante, ma addirittura ha ingranato la retromarcia. Un problema, questo, particolarmente grave in una fase di rallentamento ciclico dell’economia, quando con maggiore convinzione bisognerebbe utilizzare lo spazio fiscale e il capitale politico disponibili per stimolare la crescita. Invece, le principali misure della Legge di bilancio 2019 – il reddito di cittadinanza e soprattutto quota 100 – avranno la conseguenza di disincentivare la partecipazione al mercato del lavoro, distogliendo risorse preziose dagli investimenti pubblici e privati. Persino i provvedimenti migliori, come il credito d’imposta per la ricerca e sviluppo introdotto nel 2015, faticano a esprimere il proprio potenziale perché vengono rinnovati di anno in anno, e mancano di un credibile orizzonte di lungo termine. Oltre tutto, le ultime modifiche ne attenuano l’efficacia.

A rendere la situazione più critica è il fatto che, se la gestione del bilancio fa piangere, le politiche per la produttività non fanno ridere. La Commissione sottolinea che l’Italia non sta facendo abbastanza per rimuovere gli ostacoli al dinamismo imprenditoriale. Per esempio, la qualità della pubblica amministrazione: è anche a causa dell’inefficienza del settore pubblico se l’Italia, pur essendo uno dei maggiori beneficiari di fondi europei (quasi 45 miliardi di euro nell’attuale programmazione pluriennale) fatica a spenderli. La quota di fondi allocati su specifici progetti è del 56 per cento contro una media Ue del 63 per cento, mentre la percentuale dei fondi effettivamente pagati è del 20 per cento contro una media del 27 per cento.

Un altro tema cruciale per la crescita è la concorrenza: proprio i vincoli alla competizione, assieme alla piccola dimensione delle imprese, spiegano gran parte della bassa produttività italiana. Lo conferma un recente lavoro di un gruppo di economisti della Banca d’Italia citato dai tecnici della Commissione. Anche qui, però, la politica italiana sembra convinta del contrario. Già sul finire della scorsa legislatura, e ancor più durante quella attuale, sono stati assunti diversi provvedimenti che hanno l’obiettivo esplicito di ridurre la concorrenza: la proroga delle concessioni per ambulanti e balneari, l’equo compenso per i professionisti, il divieto all’Antitrust di indagare sui codici deontologici dei notai, i troppi ostacoli regolatori e fiscali all’economia digitale, i ritardi coi decreti attuativi della legge per la concorrenza, e chi più ne ha più ne metta.

In conclusione, sono due gli aspetti più rilevanti e, paradossalmente, meno sottolineati del rapporto. Il primo è la constatazione che, se anche oggi è più manifesta, la riottosità dell’Italia alle riforme non è certo nuova. La situazione italiana era già critica, solo che adesso – anziché accontentarci di non trovare soluzioni – stiamo attivamente alimentando le cause del problema. L’altra questione è relativa ai contenuti del rapporto: si tratta di un vademecum prezioso non solo per l’approfondita analisi che svolge, ma anche per la ricca messe di dati e i molti suggerimenti che offre.

Oltre tutto, a dispetto della retorica che vuole la Commissione guardiano occhiuto dell’austerità, la gran parte delle indicazioni sono relative proprio a riforme per la crescita. Il Country Report non è né un attacco da sventare né un’arma da sventolare, ma un documento da studiare, capire e utilizzare.