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La candidatura di Minniti, prima annunciata poi ritirata dopo l’indisponibilità di Renzi di giurare sulla sua permanenza nel PD, è un elemento di chiarezza, ma non di verità. Rende cioè ufficiale lo stato terminale del Partito Democratico, ma rischia di illudere sulle possibilità di successo di qualunque “dopo” costruito non solo sulle, ma anche con le macerie di quell’esperienza.

Appare ormai palese l’insussistenza del benché minimo ubi consistam in un partito che era nato vantando una ambiziosa vocazione maggioritaria, e oggi si ritrova non solo elettoralmente minoritario, quanto mai prima d’ora, ma permanentemente ostaggio di minoranze interne indisponibili a riconoscere le ragioni e la legittimità del “vincitore”. Il PD non è un partito nuovamente a rischio (eufemismo) di scissione, ma un mero contenitore di scissioni consumate e consumande, di incompatibilità e di incomunicabilità, di leaderismi e antileaderismi che ormai fanno il verso a quelli gloriosi della stagione berlusconiana.

Se si dovesse pensare a qualcosa di politicamente rilevante nel PD e nei suoi dintorni – non dico di buono e di cattivo, dico di politicamente rilevante, di non puramente psicologico o affaristico, personale o gruppettaro, nelle scelte di campo soppesate da tutti i protagonisti della tenzone – non si troverebbe nulla se non l’eccitazione vetero-sinistrista, da giovani vecchi corbyniani, degli artefici del cosiddetto cambiamento – Zingaretti in primis – e il chiacchiericcio nuovista ed europeista dell’esercito renziano, che oggi punta il campo macroniano, dopo essere transitato pochi anni fa senza alcuno scrupolo in quello socialista (dove mai neppure Bersani aveva portato il PD) e dopo avere interpretato, in una stagione di governo tutt’altro che disprezzabile nei suoi esiti, ma abbastanza insopportabile nelle sue retoriche, un antieuropeismo “educato” e conformista, con le sue tiritere anti-austerity, contro la burocrazia brussellese, contro i tecnici montiani e contro l’Europa senz’anima.

Questi contenuti non servono al PD per salvarsi, ma non servono neppure all’opposizione lato sensu progressista per riorganizzarsi e trovare un assetto non dico duraturo, ma almeno stabile, non occasionale, non insopportabilmente propagandistico e pubblicitario. Il PD, come partito, e Renzi, come leader, al di là dei meriti e dei demeriti dell’uno e dell’altro – di cui occorrerebbe fare un bilancio sincero, non derivato solo dalla loro fine – non possono essere utili a una causa, che tutto ciò che si muove nel PD o attorno a Renzi potrebbe invece servire efficacemente, se tutta l’opposizione non fosse costretta a rimanere inchiodata al lettino dell’analista delle angosce e dei dissidi “democratici”.

Che Renzi rifiuti di accettare che ormai lui sta al mondo progressista italiano come Hillary Clinton a quello americano – un’altra protagonista di una sconfitta rovinosa di cui non era certo la sola o la principale responsabile – appartiene al carattere del personaggio, ma diventa anche un problema per chiunque voglia difendere le scelte del suo governo senza dovere sposare quelle del suo partito di ieri e di quello di domani o intonare stancamente il refrain “Meno male che Renzi c’è” (anche su quello, l’Italia ha già già dato).

Ma la pervicacia di Renzi diventerà anche un problema per lo stesso Renzi, che romperà con il PD allo stesso modo e in fondo per le stesse ragioni per cui Bersani e D’Alema ruppero con lui: per un senso malinteso di usurpazione, in un partito che oggi non lo riconosce più come leader e neppure come icona e in cui non può più vincere, ma solo sperare che non vinca più nessuno.

@carmelopalma