marciaquarantamila

A giudicare da ciò che si legge sui social, sembrerebbe che la retorica pentaleghista abbia ormai conquistato gran parte dei favori, sembra un fiume in piena, un’inarrestabile valanga. Chi vi si oppone viene normalmente accerchiato da solerti adepti di quello che qualcuno definisce “pensiero unico”.

Ridurre le questione alla dinamica tra popolino ignorante e credulone vs élite colta e competente, è ingeneroso, snobistico e miope. La realtà è un’altra: il pentaleghismo propone un racconto di società e di futuro, mentre chi vi si oppone non propone una narrazione alternativa, ma solo i suoi strali, i suoi “argomenti contro”.

La stessa contestazione messa in atto contro l’incontro di Salvini con Orban ne è testimonianza: linguaggio del no, cultura del nemico, egemonia delle forze di sinistra, comprese quelle europeiste per convenienza, ma antieuropeiste per vocazione. Occorre mettere in campo un nuovo atteggiamento e una nuova sensibilità, occorre soprattutto saper cogliere quei segnali deboli che già indicano la strada, occorre iniziare a leggere la realtà con “pensiero laterale”, oltre i vecchi schemi.

Voglio fare un esempio. Il 14 ottobre 1980, quarantamila persone, perlopiù quadri intermedi della FIAT, sfilarono silenziose per Torino denunciando l’atteggiamento miope e ideologico dei sindacati, impegnati in un conflitto permanente coi vertici dell’azienda. Quella marcia ruppe uno schema e spezzò il “pensiero unico” di allora, liberò energie latenti e, per dirla con Pietro Nenni, diede voce alla “forza delle cose”.

Soprattutto mise in discussione due totem: la retorica dello sciopero e la cultura della lotta di classe. I due principali slogan della marcia, raccontano molto bene i principi ispiratori dell’iniziativa: il lavoro si difende lavorando, vogliamo la trattativa non la morte della FIAT. Nessuno si aspettava di veder marciare uomini in giacca e cravatta, in una piazza fino ad allora riservata alle tute blu: vinse il coraggio del libero pensiero sull’omologazione al pensiero unico. Quella marcia segnò l’inizio di una nuova fase dei rapporti industriali e della cultura del lavoro, segnò anche l’inizio di una nuova fase politica nella quale si cercò di superare la retorica dell’alternativa impossibile, verso una cultura politica incentrata sulla logica democratica dell’alternanza. In ogni caso, sia pure tra luci e ombre, prese inizio un processo di innovazione e modernizzazione del Paese.

Ecco, di questo c’è bisogno, di una nuova "marcia dei quarantamila", c’è bisogno di un evento fuori dagli schemi abituali, c’è bisogno, oggi come allora, di dare voce alla forza delle cose.

Ma chi può essere il nuovo e inatteso protagonista? Non sarà certo quella sinistra che ha per molti versi originato la cultura politica populista. Sarà semmai chi sta già esplorando le opportunità della nuova epoca, chi preferisce l’impegno alle garanzie, chi ritiene che il successo non derivi dalla rivendicazione delle proprie pretese, ma dall’espressione del proprio talento, chi apprezza i vantaggi derivanti dalla libera circolazione delle merci e delle persone, chi sa che il lavoro non si trova e non si perde, ma semplicemente si cambia.

Chi se non gli industriali? Chi se non Confindustria? In fondo gli imprenditori simboleggiano in modo particolarmente efficace ed evocativo il valore della responsabilità individuale, valore antitetico rispetto alla cultura pentaleghista fondata invece sulla rivendicazione di improbabili garanzie e sull’alibi del nemico più o meno immaginario su cui scaricare ogni colpa. 

Così come i sindacati, oggi piuttosto silenti, concentrarono tutte le loro energie contro l’ultimo governo di centrosinistra, il Governo Renzi, allo stesso modo potrebbe Confindustria dissentire apertamente con un governo ritenuto di destra. Sarebbe la consacrazione del superamento del vecchio paradigma politico. Sono forse loro, gli imprenditori di Confindustria, i nuovi interpreti della forza delle cose, i possibili protagonisti della nuova "marcia dei quarantamila".