srebrenica

Sono passati 23 anni dal crimine genocida di Srebrenica e quello cui l'Europa assistette inerme, più che un colpo di coda del passato balcanico, sembra oggi un presagio del futuro europeo.

L’esplosione della ex Jugoslavia apparve ai più l’ultimo tempo del Novecento e delle sue guerre, che anche simbolicamente, come era iniziato, andava anche a finire a Sarajevo. Che quel che succedeva in quel fazzoletto di terra a pochi chilometri dalle coste italiane fosse l’annuncio del destino del continente non lo pensava (non lo voleva pensare) nessuno.

L’Europa economicamente ambiziosa di Maastricht era ancora protetta dalla Nato nella sua comoda minorità politica e strategica. E dovettero muoversi gli americani, prima in Bosnia e poi in Kosovo, per rimettere le cose a posto – anche se disastrosamente tardi. La storia, assicurava qualcuno, era “finita”. Il crollo del Muro di Berlino apriva alla pace europea anche quel pezzo di continente congelato per mezzo secolo al di là della cortina di ferro. Gli “idealisti” che dicevano che l’Europa del futuro sarebbe nata o morta a Sarajevo venivano trattati, nelle cancellerie europee come dei fanatici buoni, accecati dalla passione umanitaria e inconsapevoli del fatto che il sangue dell’ex Jugoslavia apparteneva ad un'altra era ed era l’ultimo fuoco di un tempo finito.

Quanto successe a Srebrenica era insieme troppo tremendo e troppo piccolo per incrociare i destini magnifici e progressivi del continente. I serbo-bosniaci ammazzarono oltre 8000 uomini musulmani - una pulizia etnica bonsai – sotto gli occhi di un contingente Onu olandese che li doveva proteggere. E non lo fecero per conquistare il mondo e neppure per ricostruire la “grande” federazione titina, ma per liberare la zona a maggioranza serba della Bosnia dalle presenze “straniere” e poterla riconsegnare, cioè unificare, a Belgrado.

Chi era capace di tanto – cioè di qualcosa di così bestiale ma anche di così insensato e anacronistico nel mondo in via di globalizzazione e in un’Europa incamminata a superare le proprie frontiere interne – non era solo un mostro. Apparteneva – si pensava - a una specie politica in via di estinzione. Milosevic, Mladic, Karadzic erano terribili, ma si sarebbero estinti con il ‘900. Il loro nazionalismo pre-contemporaneo sarebbe stato digerito dalla storia e dal trionfo delle istituzioni e del mercato liberale.

Invece Srebrenica era l’annuncio del tempo nuovo. Il ritorno al sangue, all’etnia come rifugio e come trappola, antropologica prima che politica. Il ritorno alle nazioni come feticcio storico tanto più “sacro”, quanto più inutile o insufficiente per il governo delle cose e delle persone e dei fenomeni globali.

Il ritorno all’identità – cioè all’invenzione ideologica di sé e della propria storia – come alternativa alla società dei liberi e uguali. Anche il ritorno all’epopea dell’uomo forte e “guerriero”: la politica europea è una galleria di tanti piccoli Milosevic che promettono di vendicare i torti secolari o millenari dei propri popoli e restaurare la gloria delle origini. Ne abbiamo uno anche al Viminale e non è a caso il capo del partito che ai tempi difendeva l’onore e il diritto del macellaio di Belgrado.

@carmelopalma