decreto dignita big

Il primo provvedimento significativo del governo Giallo/Verde è l’ennesimo intervento urgente di “riforma” del diritto del lavoro. In piena sintonia con tanti precedenti governi, e quindi per nulla in “cambiamento”, si decide di ritoccare quanto, in vero, meriterebbe ancora sperimentazione ed applicazione compiuta. Sul punto, bene hanno fatto i consulenti del lavoro a stigmatizzare l’uso distorto della decretazione d’urgenza che disconosce il ruolo delle parti sociali ed il confronto ragionato su temi così complessi e, di certo, non emergenziali.

L’obiettivo polemico di tale Decreto è il Totem del Jobs Act – i decreti attuativi sono solo del 2015 - che viene rappresentato dalla narrazione grillina come il provvedimento simbolo di una stagione che andrebbe eliminata, anzi “licenziata”, in toto, senza sconti. Sul lavoro, il Vice Premier e Ministro Di Maio si gioca la ricorsa su Salvini e il tentativo di sfondare a Sinistra mentre il suo alleato/competitor cannibalizza un Centrodestra in confusione e pronto a svendere le proprie pur minime tradizioni liberali.

A Sinistra, dicevamo… ed in effetti alcuni contenuti di questo decreto omnibus sembrano strizzare l’occhio a certe rivendicazioni della CGIL o dell’ex ministro Damiano ma, in realtà, in puro stile grillino, si appalesa il retroterra culturale di un movimento che più che di Sinistra è contro la modernità instabile ma feconda della Società Aperta, più che democratico e sociale è statalista e collettivista nel senso del pregiudizio verso la libera impresa, più che impegnato a conquistare e tutelare diritti civili/sociali è conservatore nel senso di un approccio statico che  ritiene - quella del lavoro - una torta fissa e sostanzialmente immodificabile nel tempo che deve essere aggredita con le armi della legge per essere ridistribuita.

E ciò quando in gioco ci sono posti di lavoro che, grazie ai provvedimenti presi, potrebbero non magicamente cristallizzarsi ma passare nell’evanescente area del lavoro nero. Si è deciso, in breve, di riformare il contratto a tempo determinato, limitandone la durata a complessivi 24 mesi da 36 che erano, circoscrivendo le proroghe da 5 a 4, introducendo la causale specifica dopo i 12 mesi,  aggravando l’onere contributivo per le imprese che utilizzano questo strumento. Ora, da un punto di vista ideologico la norma sembra andare nella direzione populisticamente giusta ma, più prosaicamente e concretamente, rischia di fare un buco nell’acqua e di colpire un contratto, quello subordinato a termine, che di certo non è stato, in Italia, il campione della precarietà.

In effetti, è merito del vituperato Jobs Act l’abolizione dei co.co.pro (le collaborazioni a progetto che spesso occultavano il rapporto subordinato), la fine delle associazioni in partecipazione con apporto lavorativo che simulavano rapporti autonomi, la conversione delle false partite Iva con l’introduzione della presunzione di subordinazione, la mitigazione degli effetti dell’uso illecito dei voucher con la previsione della doppia comunicazione preventiva, il tutto nell’ottica del potenziamento del contratto subordinato a tutele crescenti a tempo indeterminato ben finanziato da poderosi sgravi contributivi… altro che precarietà!

La vulgata demagogica, però, non sa che farsene di fatti e dati  – compresi di quelli che oggi certificano la diminuzione della disoccupazione in Italia, anche giovanile – e il boom dei contratti subordinati a tempo determinato, comunque in media rispetto agli altri paesi europei, invece di essere fisiologicamente inquadrato all’interno di un sistema che ha abrogato diversi strumenti precarizzanti,  para e cripto subordinati, vengono additati come il male assoluto, ed un tutto sommato blando maquillage viene (s)venduto quale rivoluzione copernicana.

Il problema, infatti, non è tanto il merito del provvedimento ma la filosofia che ci sta dietro: se il contratto a termine è precarizzante e privo di dignità in sé, se la dinamica contemporanea dell’eclissi del posto fisso come lo abbiamo storicamente conosciuto è negato ideologicamente, se l’illusione secondo la quale la rigidità ex lege porti alla trasformazione automatica del tempo determinato in tempo indeterminato diviene azione politica spacciata come risolutiva, allora davvero dovremmo plaudire allo sforzo di Di Maio ma, purtroppo, tutto questo non corrisponde a verità.

Il cedimento del governo Gentiloni sui voucher, la loro abrogazione pressoché totaledisposta, nel 2017, per evitare l’irrazionale referendum CGIL, ha provocato un vulnus grave nel sistema: la sottrazione di un utile strumento per le aziende alle prese con attività stagionali accessorie e  l’uscita dall’ambito “legale”  di molti addetti di nuovo ricaduti nelle spire del lavoro nero, senza contributi INPS e premi INAIL.

Tale errore oggi – con il Decreto Dignità - viene potenziato nel senso dell’ulteriore rigidità per sottrazione di strumenti che avrà un solo effetto sicuro: l’aggravamento del costo del lavoro in capo alle imprese e la perdita di chance lavorative.

Invece di consolidare la corretta impostazione di quella Impresa 4.0 voluta dal ministro Calenda e che ha garantito alle aziende una iniezione di fiducia verso gli investimenti produttivi in innovazione e ricerca (iper e super ammortamenti, credito d’imposta, nuova Sabatini, patent box, start up e PMI, fondo di garanzia pubblica), invece di affrontare con le parti sociali il problema grave della produttività, invece di riconoscere pragmaticamente l’evoluzione di un “lavoro” tutt’altro che statico e figlio dell’incremento di ricchezza, si punta all’astrazione romantica ed evocativa con un aggravamento burocratico – che farà la fortuna di tanti avvocati – in relazione ad un contratto subordinato la cui apposizione del termine ha, per la stragrande parte dei casi, il senso di facilitare e consentite l’ingresso nel mondo del lavoro senza da subito stipulare un matrimonio indissolubile.

Ma il lavoro, in fondo, non è il problema del Movimento di Grillo, quanto non lo è la tutela della produzione e dell’impresa. E bene ha fatto il ministro delle politiche agricole Centinaio, proprio in queste ore, a chiedere a Di Maio l’apertura di un tavolo di discussione sulla reintroduzione dei voucher in agricoltura in vista della prossima vendemmia. Il paradigma grillino, infatti, è quello del reddito di Stato, la panacea pubblica che interviene a sanzionare l’epoca della “fine del lavoro”, certificata dall’incapacità interessata di analizzare ed affrontare con coraggio solo l’ennesima evoluzione da governare.

In sintesi, è il Sacro Principio che conta, la pianificazione utopistica di Partito e non il concreto moto sociale. E se i posti di lavoro da “precari” si trasformeranno in “fuori legge” ciò che davvero importa è la concretizzazione - sulla carta e nelle propaganda  - di promesse elettorali di stabilità e invariabilità anti storica  cui dovrà dar corso Pantalone – a danno delle generazioni a venire - chiamato in causa per far fronte alla deriva apocalittica della fine del lavoro e dell’impresa preconizzata dai fautori della decrescita felice, della disoccupazione creativa e della pensione di Stato a 40 anni.