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Chi ha avuto occasione di vedere l’Ungheria una quindicina di anni fa, conviene che il cambiamento, soprattutto nelle grandi città, è stato grande: da una Budapest dei primi anni duemila in cui la circolazione stradale era composta essenzialmente da Trabant e Dacia di fabbricazione sovietica o della DDR dalle carrozzerie di plastica, un paese in cui si era costretti – per comunicare con la popolazione – a imparare il tedesco o l'ungherese, in cui Andrássy Út – la via principale – non era altro se non un grigio vialone con palazzi dalle facciate semidiroccate, si è passati ad una capitale che ha indubbiamente riacquistato uno splendore che forse ha avuto solamente nel pieno fulgore del periodo asburgico.

Ordinato, pulitissimo, sicuro, il centro di Budapest negli anni è stato trasformato: le facciate dei palazzi Sette-Ottocenteschi da scrostate, decadenti, costellate di fori di proiettili della rivolta del ’56, sono diventate elegantissime testimonianze dello splendore e dei fasti di una capitale che è sempre stata considerata una delle più affascinanti della mitteleuropa.

Nella conversione al capitalismo, l'Ungheria ha preso il meglio e il peggio dell'Occidente: grandi centri commerciali hanno soppiantato i vecchi negozi dalle vetrine polverose e dall’inesistente assortimento di merci, Andrássy Út è ormai una qualsiasi via Montenapoleone, 5th Avenue, Boulevard des Champs Élisées, ossia una grandissima arteria dello shopping di lusso dove i negozi dei grandi marche si susseguono tutti uguali.

L’Ungheria è riuscita, nonostante gli anni del regime comunista del secondo dopoguerra, a conservare uno spiccato patriottismo; il popolo magiaro, infatti, ha una fortissima identità nazionale (un esempio su tutti: il nome del Paese in lingua ungherese è Magyarország, e “spiegare” si dice magyarázni, ossia “magiarizzare, ungheresizzare”) già presente nell’Ottocento e rafforzatasi dopo l'enorme riduzione di ben due terzi del territorio del Paese stabilita dal Trattato di Versailles al termine della Grande guerra. Come tutte le condizioni di pace eccessivamente umilianti nei confronti degli Stati sconfitti portano all'inasprimento delle istanze sovraniste e nazionaliste (basti vedere a cosa ha portato il Trattato del Trianon con la Germania, rendendo il terreno fertile al successivo affermarsi del nazismo), così l'Ungheria si è sempre più spostata, come baricentro politico, verso destra. Nonostante, appunto, gli anni del comunismo. 

Va osservato che l'Ungheria, nonostante sia entrata in Unione Europea nel 2004 con il cosiddetto "allargamento dei dieci", ha assunto, negli ultimi anni, posizioni sempre più euroscettiche, quando non addirittura marcatamente antieuropeiste, insieme alla Repubblica Ceca, alla Slovacchia e alla Polonia. Questi Paesi sono anche noti come il “gruppo di Visegrád”, dal nome della cittadina della provincia di Pest sdraiata sulle rive dell’ansa del Danubio, dove era stato suggellato nel 1991 il primo accordo di cooperazione tra gli stessi Stati finalizzato a favorirne le sinergie e l’economia per consentirne l’ingresso in Unione Europea; negli ultimi tempi, tuttavia, il nome del gruppo ha assunto una connotazione antieuropeista a causa della loro deriva autoritaria e illiberale, in aperto contrasto con le politiche europee e in spregio alle regole comunitarie.

Anche le posizioni sull'immigrazione hanno registrato una brusca svolta verso destra: lo stato magiaro infatti ha sempre avuto un tasso di immigrazione (così come di emigrazione) molto basso, dovuto a diversi fattori, primi fra tutti la difficoltà della lingua e i gravissimi problemi occupazionali sorti in seguito alla conversione dell'economia comunista e all’apertura alla libera concorrenza. Ovviamente, in un Paese disabituato negli ultimi secoli a fare i conti con problemi migratori su larga scala, i flussi balcanici provenienti principalmente dalla crisi della Siria sono stati percepiti con maggior disagio rispetto a Paesi come ad esempio l'Italia, sempre costretta ad affrontare emergenze di questo tipo, o la Francia, che ha avuto l'esperienza della massiccia immigrazione dalle ex colonie specialmente della zona del Maghreb.

Orbán, leader del partito Fidesz, Unione civica ungherese, è stato eletto premier la prima volta nel quadriennio 1998-2002 e governa ininterrottamente lo Stato magiaro dal 2010. È peculiare la svolta che ha dato al partito, inizialmente progressista e liberale, spostandolo sempre più a destra con il passare del tempo, tanto che adesso è collocabile in un’area di destra dalle connotazioni illiberali, ultraconservatrici, xenofobe e antieuropeiste. Orbán ha rappresentato, per un Paese in fortissima crisi economica, la risposta a molte insicurezze del popolo ungherese, che ha visto in lui l’unico politico in grado di salvaguardare l’unità nazionale, specularmente a ciò che è accaduto nella Russia di Putin.

È cosa nota che nei momenti bui, di transizione democratica e di forte recessione economica, le nazioni tendono a spostarsi verso la destra, vista come unica possibile custode e protettrice dei valori tradizionali, promotrice di sicurezza e ordine, ma in Ungheria ciò si è sovrapposto, come già accennato, alla natura della popolazione poco incline al recepimento di istanze progressiste. Nonostante Orbán sia inviso a quella parte più illuminata del Paese che vede un ritorno di regime, la politica demagogica che persegue, con continui riferimenti alla passata grandezza ungherese e l’uso smodato della leva della paura verso gli stranieri, ha avuto molta presa sui giovani e sulle classi sociali che si sono ritrovate impoverite alla fine dell’era comunista.

Come in Russia sotto Eltsin prima e Putin dopo, ha avviato una massiccia liberalizzazione delle attività che prima erano gestite dallo Stato, creando così una nuova classe di oligarchi legata a lui da interessi economici. Come Putin, ha emanato leggi mirate alla limitazione della libertà di stampa e degli altri organi di informazione, proposto riforme atte a smantellare, in maniera progressiva, le istituzioni democratiche. Nel 2011 il governo di Orbán ha approvato la nuova costituzione: già dall’incipit, è di solare evidenza come l’assetto statuale sia stato disegnato secondo un’architettura opaca, con frequentissimi richiami, inusuali in una carta fondamentale moderna e liberale, a temi nazionalistici, extra-giuridici e a concetti di identità nazionale e tradizione che, secondo la migliore tradizione democratica, devono restare segregati al di fuori della sfera legale. Per comprendere la portata del fenomeno, e di quanto desti preoccupazione all’interno delle istituzioni europee, basta leggerne poche righe “Noi siamo fieri che il nostro re Santo Stefano abbia costruito lo Stato ungherese sopra delle basi solide, facendo entrare la nostra patria nell’Europa cristiana. Noi siamo fieri dei nostri antenati che si sono battuti per la sopravvivenza, la libertà e la sovranità della nostra nazione. Noi siamo fieri delle notevoli creazioni intellettuali degli Ungheresi. Noi siamo fieri che il nostro popolo si sia battuto nel corso dei secoli per difendere l’Europa, contribuendo all’edificazione dei suoi valori comuni grazie al suo talento e alla sua assiduità”.

Non solo. Il paragrafo D dei principi fondamentali si prefigge di promuovere e tutelare “l’ungheresità” anche al di fuori dei confini nazionali (“Mossa dalla coesione di una nazione ungherese unita, l’Ungheria si assume la responsabilità della situazione degli Ungheresi che vivono fuori dalle frontiere del paese. L’Ungheria promuove il mantenimento e lo sviluppo delle loro comunità. Sostiene gli sforzi messi in atto per mantenere la loro “magiarità”, per far applicare i loro diritti individuali e collettivi, per creare degli organi collettivi di autogoverno e per assicurare la loro prosperità nella terra natale”), concetto pericolosissimo in quanto è lo stesso cui si è appellato Hitler mettendo in atto l’Anschluss e cui ha fatto ricorso Putin per invadere la Crimea. Inoltre, con la nuova Carta fondamentale, è stato conferito al governo il potere di nomina diretta dei giudici della Corte costituzionale, svuotando di fatto il Giudice delle leggi delle sue prerogative.

Sul versante della libertà di informazione, nel 2016 è stato chiuso il principale quotidiano di opposizione al governo, Népszabadság, dopo una serie di scoop sugli scandali e i numerosi conflitti di interesse di György Matolcsy, governatore della Magyar Nemzeti Bank (la Banca Centrale Ungherese) nominato direttamente da Orbán, uomo dalle dubbie capacità nel settore compensate però da una purissima fede orbaniana. Il Népszabadság, ovviamente, secondo la narrativa della retorica di governo, ha chiuso per non meglio specificati “problemi economici”. Orbán, è grande appassionato del gioco del calcio: con un utilizzo che si sospetta illecito di fondi europei sui quali da Bruxelles tuttora si indaga, ha fatto costruire, di fianco alla sua villa a Felcsút – il suo paesino natale di poco più di 1500 abitanti – un avvenieristico stadio da 3500 posti dall’archistar ungherese Makovecz. Il premier utilizza anche suggestioni sportive per incitare all’unità nazionale, dipingendo il grande calciatore Ferenc Puskás come una sorta di eroe mitologico magiaro.

Non si contano le accuse di malversazione e nepotismo: la più recente riguarda un’indagine dell’Olaf, l’ufficio antifrode europeo, su una truffa da 40 milioni di euro a danno di fondi comunitari messa a punto da Istvan Tiborcz, il genero di Orbán (nel frattempo diventato uno degli uomini più ricchi d’Ungheria), il quale avrebbe truccato gli appalti facendoli aggiudicare alla sua società. Le istanze xenofobe sono un ulteriore tassello che va a completare uno scenario già sino ad ora alquanto pericoloso per l’unità dell’Unione Europea: l'ondata migratoria dalla Siria ha costituito per Orbán un’autentica fortuna in termini di immagine avendogli consentito, anche con la costruzione del muro con la Serbia, di fare un restyling del potere (prima messo a dura prova da numerose contestazioni da parte dell’opposizione), di respingere le accuse di megalomania in nome della necessità di unità nazionale e della coesione volte allo scopo di proteggere il popolo ungherese da quella che è stata percepita come una pericolosa invasione straniera cui è necessario porre freno a tutti i costi.

La deriva autoritaria ungherese si inserisce in un quadro preoccupante, se si guarda verso Est: basti pensare alla legge approvata nel dicembre 2017 in Polonia, dove alcuni giudici della corte suprema sono stati costretti dal governo alle dimissioni e il potere giudiziario è stato messo di fatto agli ordini di quello esecutivo. Tutto ciò restando in ambito europeo, dacché, volgendo lo sguardo alla Russia, la situazione appare a tinte ancor più fosche: le recentissime elezioni hanno appena consacrato la quarta investitura dello “zar” Putin, col quale, manco a dirlo, Orbán intrattiene un rapporto idilliaco, tanto da annunciare, dopo la visita del presidente russo a Budapest nel febbraio 2015, lo spostamento dell'asse politico ungherese verso Mosca, consumando un ulteriore strappo con Bruxelles pochi mesi dopo con la riproposizione della pena di morte nel codice penale.

Crollato il muro di Berlino, dissolta l'Urss, venuto meno il Patto di Varsavia, l'Est Europa va nella direzione di forme di democrazia attenuata, se ancora di democrazia è lecito parlare, ritenute da molti come l’anticamera di future dittature. Tutto ciò desta maggior inquietudine se solo si considera che sono Paesi che hanno beneficiato, per l'ingresso in Europa, di parametri molto allentati rispetto a quelli ben più restrittivi di Maastricht, nonché di massicci investimenti economici attraverso l'impiego di fondi europei. Mala tempora currunt.