Se l'obiettivo di Renzi è quello di propiziare l'accordo su di una nuova legge elettorale "che sia maggioritaria, che garantisca la stabilità e l'alternanza e che eviti il rischio di nuove larghe intese", delle tre proposte-base che il segretario del PD ha sottoposto alle forze parlamentari, la più papabile (lo spagnolo rinforzato da un premio di maggioranza del 15%) non basterebbe allo scopo e neppure servirebbe a inaugurare una dinamica politica efficiente, nel quadro tripolare destinato a resistere nel sentimento e nelle preferenze di voto degli italiani.

Renzi sa che una legge elettorale interamente confezionata dentro il perimetro della maggioranza (e a sua immagine e somiglianza) potrebbe, a prescindere dal contenuto, apparire un'edizione riveduta e corretta del vecchio Porcellum. Un modo per far sì che i voti, oltre a contarsi, si pesino e per garantire così la sopravvivenza elettorale dei partiti al governo, più che la tenuta di un sistema di governo politicamente "normale". Da questo punto di vista, il segretario democratico ha ragione. La cronicizzazione delle larghe (e medie) intese e l'istituzionalizzazione delle solidarietà forzate tra forze politiche concorrenti non è un exit strategy razionale dall'impasse della democrazia italiana.

Renzi sulla legge elettorale e sulle riforme istituzionali deve dunque trattare con le due facce uguali e contrarie dell'anti-politica anti-governativa. Né dal Berlusconi diversamente grillino né dal Grillo diversamente berlusconiano gli verrà presumibilmente alcun soccorso, ma questa apertura "ai nemici" gli serve per consolidare l'immagine post-larghe intese della sua leadership e del suo Pd. Soprattutto sui temi sensibili della riforma della politica, delle istituzioni e dello Stato, il suo ultimo interesse è oggi quello di apparire il mandatario del governo Letta-Alfano e di una maggioranza raccogliticcia e rappresentativa sì e no di un terzo dell'elettorato italiano. Fin qui, dunque, nulla quaestio. Sul piano della logica, la scelta di Renzi ha una sua evidente razionalità, non solo opportunistica.

Se però l'accordo implicito ed esplicito con i "nemici" portasse a un sistema spagnolo in salsa italiana (sbarramento medio superiore al 10%, premio di maggioranza al 15%), i propositi del rottamatore potrebbero ben difficilmente realizzarsi. Nessun effetto maggioritario, nessuna alternanza, nessuna fine delle larghe intese. Patteggiare un sistema proporzionale con uno sbarramento alto e un premio di maggioranza basso oggi significa di fatto concordare con il Cav. e con Grillo un governo Renzi-Berlusconi con il M5S all'opposizione e una semplificazione del sistema politico realizzata consegnando circa i due terzi dell'elettorato ad una rappresentanza antipolitica. Berlusconi, di fatto, ha già detto sì, tramite Verdini. Grillo (che una proposta analoga aveva già fatto presentare ai suoi senatori) confermerà la convergenza nel plebiscito on line convocato per l'occasione.

È evidente che una legge elettorale comune può concordarsi solo con i protagonisti e non con i comprimari del sistema politico, non dentro, ma fuori dal perimetro della maggioranza. Dunque Renzi, se vuole un accordo trasversale, o lo trova con Berlusconi, o con Grillo, o con entrambi. Però se questo è l'obiettivo, perché essere così ambizioso negli "smontaggi" (delle grandi intese, dell'identità del Pd, del ruolo coatto del Pd come partito di Napolitano) e non altrettanto nei "rimontaggi" (delle geometrie elettorali, delle dinamiche istituzionali, della sostanza del gioco politico)?

Perché Renzi non propone un "cambiar verso" più classico ed esplicito, perché non obbliga Grillo e soprattutto Berlusconi a dire sì o no a una riforma destinata a passare alla storia e non solo alla cronaca? Perché non sfida i suoi competitor su di una proposta effettivamente competitiva e non sostanzialmente consociativa, come purtroppo quella spagnola risulterebbe in Italia?

Tra le alternative possibili, ve n'è una – quella francese: presidenzialismo e doppio turno – che nella sua versione autentica comporta una modifica costituzionale destinata di per sé ad allungare di almeno un anno la durata della legislatura (non diversamente peraltro da quella necessaria a far funzionare il modello del cosiddetto "Sindaco d'Italia"). Ve ne sono anche altre, adattabili al quadro costituzionale vigente (ad esempio un Mattarellum "doppioturnizzato" ai fini del premio di maggioranza), meno pulite, ma forse altrettanto efficaci. Come rispetto al governo, anche sulle riforme se Renzi vuole rompere, ora deve farlo. Se però non ci riesce, non può più lamentarsene. Non si fa la rivoluzione all'insegna del meno peggio.