L'intesa tra popolari e socialdemocratici sembra essere, con ogni probabilità, la formula migliore anche per Bruxelles. Nell'ottica di un progressivo ammorbidimento della posizione tedesca rispetto ai propri partner europei, il compromesso con i socialisti darebbe ad Angela Merkel meno filo da torcere che non un'alleanza con i rissosi drappelli euroscettici.

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All'indomani del voto per il rinnovo del Parlamento europeo lo scorso 25 maggio, si è da più parti sostenuto che la Germania abbia assistito all'esito elettorale meno traumatico e sconvolgente di tutta Europa. Benché in calo rispetto alle scorse elezioni europee, l'unione tra i cristiano-democratici della signora Merkel e i cristiano-sociali bavaresi del governatore Horst Seehofer è rimasta la prima forza politica della Repubblica federale (35%) distanziando di circa otto lunghezze i tradizionali avversari con i quali, tuttavia, è nuovamente al governo dal novembre 2013, i socialdemocratici.

Altrettanto poco sorprendente è stato il risultato di ecologisti (10%) ed estrema sinistra (7,5%), gli unici due partiti di opposizione attualmente rappresentati al Bundestag. E' rimasto nei limiti delle attese anche il moderato exploit della AfD, il piccolo raggruppamento di euroscettici, che ha fatto registrare il 7% dei suffragi, travolgendo e più che doppiando i liberali dell'FDP, fermatisi al 3,4%, un risultato ancora peggiore del già catastrofico 4,8% delle elezioni federali di settembre. Previsto, infine, era anche l'ingresso al Parlamento europeo di forze politiche del tutto marginali, rimaste quasi tutte poco sopra o addirittura sotto l'1%. Dopo la bocciatura della soglia di sbarramento per le elezioni europee da parte del Tribunale costituzionale di Karlsruhe, hanno infatti ottenuto un seggio ciascuna sei liste, tra cui si menzionano la Piratenpartei e l'NPD, il cd. partito neonazista.

Nonostante l'assenza di particolari sorprese, il voto tedesco è quello che ha aperto la discussione tra le forze politiche forse più accesa sulle sue conseguenze. Quasi in nessun altro Stato membro europeo, infatti, la campagna elettorale si è svolta all'insegna di chi, da un parte, sosteneva apertamente Martin Schulz e chi, dall'altra, appoggiava più o meno convintamente Jean-Claude Juncker come candidati Presidenti della Commissione europea. Il calo di democristiani e cristianosociali e il recupero dei socialdemocratici è stato letto da questi ultimi come un chiaro messaggio dell'elettorato tedesco a favore del renano Martin Schulz, mentre una delle prime conclusioni dei vertici del partito della signora Merkel all'indomani del voto è stata che Jean-Claude Juncker, quale candidato del gruppo di maggioranza relativa (il partito popolare), avrebbe avuto il diritto di ricercare una maggioranza parlamentare in grado di sostenerlo.

La Cancelliera, tuttavia, si è mostrata da subito più prudente riguardo a questa tesi, sostenendo che sia necessario ricercare maggioranze le più larghe possibili, in grado di escludere le estreme dai giochi. In particolare, Angela Merkel non può certo permettersi un'alleanza tra popolari, liberaldemocratici ed euroscettici moderati. Tra questi, infatti, non figurano soltanto i Tories e i polacchi di Jaroslaw Kaczynski, ma anche i connazionali dell'AfD. La soluzione ideale per la Cancelliera sarebbe piuttosto di riuscire ad incoronare Juncker anche con i voti di socialdemocratici ed almeno in parte dei verdi. Quelli tedeschi hanno dato negli ultimi giorni qualche segnale di apertura attraverso il proprio capogruppo a Bruxelles, Sven Giegold.

Nel frattempo, secondo indiscrezioni del settimanale Der Spiegel, il premier britannico, David Cameron, avrebbe escluso ogni appoggio a Jean-Claude Juncker da parte dei suoi deputati ed anzi avrebbe persino minacciato l'uscita del Regno Unito dall'UE in caso di elezione di Juncker da parte del Consiglio europeo. Nelle prossime settimane, il Consiglio incomincerà ad esaminare la questione, prendendola però molto alla lontana. Innanzitutto, occorrerà definire le dimensioni della nuova Commissione e capire quali tra i 28 Paesi otterranno i portafogli più prestigiosi. Al di là dell'indicazione dei candidati Presidenti della Commissione da parte dei partiti in campagna elettorale, il negoziato in sede UE per la spartizione dei posti chiave continua quindi, come previsto dai Trattati, sulla base del metodo intergovernativo.

A spuntarla non potranno essere Gran Bretagna e Germania allo stesso tempo. A prescindere dai vincoli numerici esistenti in Parlamento, il buon senso ci dice che alla signora Merkel converrà spingere per un'inedita grande coalizione anche a livello europeo. Nell'ottica di un progressivo ammorbidimento della posizione tedesca rispetto ai propri partner europei, il compromesso con i socialisti a Bruxelles le darebbe molto meno filo da torcere che non un'alleanza con rissosi drappelli euroscettici.

Le indiscrezioni trapelate nelle ultime ore circa un accordo franco-tedesco sul nome di Christine Lagarde, attuale direttore del FMI, sembrano avvalorare queste ipotesi. Benché abbia apertamente appoggiato Juncker, la Cancelliera è in realtà sempre stata disponibile a seguire altre strade di comune accordo con il gruppo socialista. Nello specifico, l'elezione della Lagarde non potrebbe dirsi del tutto indigesta nemmeno per Francois Hollande, che spera così di liberarsi di una possibile e alquanto temibile concorrente per le presidenziali del 2017.