dibbanardo

Sorprende molti osservatori il risultato emerso dalle urne il 4 marzo, ma svariate tendenze erano fin troppo palesi da tempo. La vittoria schiacciante dei vari fronti antieuropeisti delinea scenari incerti e verosimilmente contraddittori per le prospettive dell’Italia nell’ambito di una imminente riforma della governance europea e della definizione di un’agenda dell’integrazione “a ranghi ridotti” come unica alternativa a un lento disfacimento dell’ambizioso progetto europeo rimasto incagliato a metà.

Il dato però che più impressiona è il riemergere rumoroso dell’annosa e irrisolta questione meridionale, nella sua versione “secondo millennio”. Il M5S, con picchi da regime, coglie a mano bassa la vittoria in un Sud Italia (in senso lato, includendo parti del Centro e le Isole) che manifesta democraticamente ma in maniera un po’ sguaiata e opportunistica (vedi reddito di cittadinanza) un’esigenza di cambiamento, e soprattutto una voglia di prospettive che altri (e sé stesso) non sono stati in grado di fornire in anni di generalizzato cattivo governo locale e malcostume (vedi nepotismo, trasformismo e collusione col sistema mafioso e/o con l’establishment). Ci sono alcuni elementi da considerare per provare a comprendere il fenomeno.

La fine della cassa del mezzogiorno e il crollo della spesa pubblica: l’esaurirsi dell’assistenzialismo come era di un benessere artificiale non ha lasciato spazio ad alternative esistenziali per molti di quelli che sono rimasti. I padri che hanno ancora impieghi pubblici, molto spesso ottenuti in maniera opaca e clientelare in altri tempi, i figli che giustificano il proprio inattivismo dietro l’alibi del “lavoro non c’è, è colpa della politica”. C’è tuttavia un fondo di verità: il resto del Paese ha abbandonato un Sud tutt’altro che autonomo a sé stesso, riducendolo a riserva per le vacanze estive.

I fondi europei e la concorrenza dell’Est Europa: il forte ridimensionamento delle regioni meridionali come destinazione di fondi comunitari a causa della concorrenza (e spesso maggiore competenza e progettualità) delle regioni periferiche dell’Est europeo, che ha lasciato un vuoto di investimenti che si palesa in un disfacimento infrastrutturale a tratti imbarazzante ma soprattutto in una totale assenza di ambizioni e grandi progetti nel territorio, che spesso vede la sopravvivenza del sistema, pur disastrato quanto si vuole, come unico scopo.

La fuga di risorse: la quasi totalità dei “giovani” (in Italia si intende almeno fino a 40 anni) meridionali dinamici e ambiziosi, motore della mobilità sociale, della redistribuzione e fondamentalmente della giustizia sociale e del benessere complessivo nel lungo periodo, sono emigrati e continuano a emigrare, al Nord o all’estero, prima per studiare o poi per lavorare, e anche se volessero (come spesso accade) non hanno di fatto possibilità di rientrare a meno di una rinuncia drastica alle proprie ambizioni e a uno stile di vita mediamente più alto (fanno eccezione i detentori di rendite).

La differenza di percezione dei problemi politici ed economici rispetto al Nord metropolitano e all’Europa “illuminata”: la distorsione delle priorità dell’agenda politica di chi ha vinto al Sud (immigrazione, ritorno alla lira, cancellazione delle riforme, blocco totale dei nuovi progetti - No Tap e dintorni) rispetto alle priorità reali del Paese (ripresa economica, radicale riforma della pubblica amministrazione, della giustizia e del welfare, inversione dei trend demografici, ruolo dell’Italia nel mondo) si legge facilmente a valle del punto precedente, guidata anche da ignoranza e cattiva comunicazione ma principalmente da una distanza siderale dal resto del Paese (e dell’UE).

La totale assenza di visione: la radicata incompetenza (spesso anche solo relativa, ad esempio degli avvocati o dei medici chiamati a fare i manager dalla politica) della tanto biasimata “classe dirigente” (non certo solo politica) è molto spesso narrazione della realtà al Sud, al di là dei qualunquismi d’attualità, e non vederlo e non ammetterlo e non cercare soluzioni radicali come si è preferito fare è stato scellerato. L’incompetenza sì, ma anche l’assenza di ambizione, la già citata cultura del tirare a campare, e una tendenza difensiva e conservativa (spiegabile sì da svariate ragioni storiche, ma sempre ingiustificabile) a resistere a ogni tentativo di cambiamento e ammodernamento (vedi il mito postromantico e a tratti comico della decrescita felice e della natura selvaggia - natura selvaggia al Sud? E dove, di grazia, dopo sessant’anni di speculazione edilizia? - come fonte di sostentamento necessaria e sufficiente, con buona pace del resto del mondo che si allontana alla velocità del suono verso un futuro sempre più a noi incomprensibile).

La questione morale: continuare a fingere che al Sud non esista una grave emergenza di senso della legalità, di carenza di senso civico (senz’altro derivata anche dallo scollamento con lo Stato, e i suoi delegati, visto come Leviatano che può irrazionalmente decidere se darci o meno una fonte di sostentamento, ma non soltanto) e di frequente “compromissione” morale (“sono tutti porci questi politici, poi però se dovessi diventarlo anch’io magari mi intasco una busta”), per non voler citare la questione delle mafie, che è spesso additata come unico male ma ne è solo parte integrante.

Soluzioni? Poche, difficili. Ma non rinviabili, pena la sconfitta del Paese nel suo insieme, e magari dell’Europa. C’è ancora speranza al Sud, spesso in un confuso cambiamento che riporti benessere senza fatica sì, ma su cui comunque si può fare leva per ricostruire. Ed è fondamentalmente da questo grido di aiuto che bisogna ripartire: lavorare per ricostruire una prospettiva esistenziale per un Sud che ha sì fallito (molto spesso per sua esclusiva responsabilità) ma da cui non si può prescindere, garibaldinamente parlando.

È un problema complesso, ma va affrontato in maniera strutturata e con un piano molto ambizioso e di lungo periodo, non con tappabuchi (vedi i tentativi abbozzati da Berlusconi con la “banca del sud” o con Renzi per i patti regionali come emblema dell’approccio “tirare a campare”), che valorizzi le peculiarità dei territori ma con una esigenza di discontinuità rispetto all’approccio masanelliano (vedi Emiliano). Ricostruire ripartendo da quello che si ha, ma con la volontà di uscire dalla comfort-zone e creare qualcosa di nuovo, non vivendo esclusivamente dei “prodotti della terra” come chi ha vinto in questi giorni propone.

Chi saprà proporre un progetto per un nuovo Sud potrà soffrire consensi limitati nel breve ma sul lungo periodo inevitabilmente avrà la meglio in quanto portatore dell’unica alternativa alla pura decadenza. Un piccolo esempio su tutti: la formazione. Trasformare un leitmotiv sterile della politica degli ultimi anni in un piano di azione concreto, ad esempio creando un numero (limitato) di centri d’eccellenza con ambizione globale, attirando (pagandoli bene) i migliori studiosi di alcuni campi e concentrandovi le poche risorse disponibili, o ad esempio puntare a testa bassa sui servizi avanzati e perché no sull’attrazione anche con aliquote agevolate di “headquarters” di grandi aziende di servizi internazionali. Continuo a chiedermi come sia possibile che le grandi multinazionali preferiscano avere sedi europee nella grigia Francoforte, in Irlanda o Lussemburgo, piuttosto che a Palermo o Napoli o Cagliari, e mi rispondo che stiamo facendo davvero di tutto per non approfittarne, come invece ad esempio Barcellona e Madrid provano a fare ormai da anni.

Altra leva di peso sarebbe l’immigrazione, unica forza fresca e gratuita a nostra disposizione per ridare slancio esistenziale al sud. Ma i temi su cui lavorare sono tanti, e l’unica certezza è che su questo si giocherà il destino delle prossime legislature.