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Le elezioni del 4 marzo disegnano un paese diviso sostanzialmente in due - e questo è stato già detto e ridetto - tra un centro-nord di destra, a sostanziale trazione leghista, e un centro-sud a 5 stelle. Andando a vedere meglio oltre le sigle degli schieramenti, la frattura sottende un modo radicalmente diverso di intendere le finanze pubbliche: da una parte il desiderio di tenersi in casa (in casa propria, attraverso la flat tax, o in casa “geografica”, attraverso politiche protezioniste) la ricchezza prodotta, dall’altra l’ambizione di sopravvivere (di “sussistere”) senza l'onere di generare ricchezza. L’economista portoghese Alexandro Afonso ha illustrato ieri, in un grafico molto efficace, come il successo del M5S sia direttamente correlato al PIL pro-capite.

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Il voto grillino e quello leghista hanno tanti tratti in comune, dall’odio per gli immigrati a quello per l’Europa, e più in generale convengono nel cercare capri espiatori “esterni” per liberare gli italiani dalla condivisione della responsabilità del male che affligge il loro paese, e quindi per proporre la perpetrazione “ad infinitum” dello stesso male, il debito pubblico. Diverge però in maniera radicale su questo aspetto, che mette in primo piano l’esistenza di una questione meridionale e di una settentrionale, entrambe violente, catartiche e rancorose, alle quali il centrosinistra non riesce a dare risposte convincenti (e non è detto che le risposte convincenti siano quelle giuste, anzi in questa fase storica è decisamente vero il contrario) e finisce per perdere consensi ed evaporare.

Termina quindi quella che forse è stata la migliore legislatura della storia repubblicana - per quantità e qualità delle riforme proposte, dall’economia alle libertà civili - ed inizia quella che ha tutta l’aria di essere la peggiore. Renzi avrà fatto di tutto per risultare antipatico agli elettori e anche ai suoi sostenitori, ma la chiave del suo insuccesso è la stessa di sempre: in Italia chi fa le riforme muore, e l’unica garanzia di sopravvivenza politica è la conservazione e la tutela dello status quo: in questa constatazione c’è il programma politico ed economico del futuro governo, qualunque sia la forma che prenderà.

Non avremo, quindi, né redditi di cittadinanza né flat tax - tanto si potrà dare comunque la colpa all’euro, all’Unione Europea, agli immigrati, alla casta di prima e a quella di poi, al sempreverde “non ci lasciano governare” e a tutto il classico armamentario di alibi secondorepubblicani - e il massimo a cui si potrà ambire è un’ordinaria amministrazione in deficit (“ce ripigliamm tutto chell ch’è o nuost” o “padroni a casa nostra”, griderà il Di Maio o il Salvini di turno fingendo di battere i pugni sui tavoli di Bruxelles) che riporterà l’Italia alle soglie del 2011, vanificando per l’ennesima volta gli sforzi fatti finora per rimettere in carreggiata un paese più sfinito di allora, e quel che è peggio molto più incattivito.

Con il rischio che però che stavolta la resa dei conti arrivi in maniera più rapida, e attraverso forme inattese: ad esempio, avete già deciso cosa fare dei soldi che avete in banca di fronte alla convocazione di un referendum sull’euro, e quindi all’eventualità della loro repentina perdita di valore, o di fronte al rialzarsi degli spread nell’era del bail-in, e quindi della prospettiva di dover contribuire con i vostri depositi al salvataggio di istituti di credito già deteriorati? L’abbiamo ripetuto più volte su queste colonne: attenti a quello che desiderate, potrebbe avverarsi. Ecco fatto.