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Timeo Danaos et dona ferentes. Potrebbe essere questa la migliore reazione alle parole con cui il presidente della Russia Vladimir Putin, il 30 dicembre, ha accompagnato gli auguri di fine anno, indirizzati all’Italia e, formalmente, al presidente Sergio Mattarella e al presidente del consiglio Paolo Gentiloni.

Pur nelle parole necessariamente di circostanza richieste dall’occasione, che non è certo quella di un consesso politico internazionale in cui decidere le sorti delle relazioni bilaterali, l’augurio di Putin per il nuovo anno richiede una risposta ferma, laddove non evoca semplicemente la “tradizione centenaria di amicizia, mutuo rispetto e affinità”, parole appunto di circostanza, ma si spinge all’auspicio che, nel 2018, Mosca e Roma “possano contribuire al rafforzamento della stabilità e della sicurezza in Europa e nel mondo”.

Sarebbe interessante approfondire il concetto di “stabilità” e quello di “sicurezza” – nonché il concetto di “Europa” – secondo il presidente russo, che per inciso nel 2018 s’avvia ad un’ulteriore elezione senza sostanziali avversari, visto che prima la commissione elettorale e poi la Corte Suprema hanno respinto la candidatura di Aleksej Navalny, che probabilmente non avrebbe sconfitto Putin, ma almeno avrebbe dato vita a una competizione seria. E una non effimera concorrenza elettorale appare un requisito minimo per definire democratico uno Stato.

La bocciatura della candidatura di Navalny avviene a causa di una sua condanna per frode fiscale, sospesa con la condizionale: lo stesso Navalny ritiene che, in caso di sospensione condizionale, la condanna non valga ad impedimento della candidatura. Per chi conosce più da vicino la recente storia russa, questo impedimento suona poi quantomeno curioso, visto che sullo stesso Putin o quantomeno sul suo entourage aleggia l’ombra di numerosi “colpi di mano” nell’economia e nella vita pubblica russe, fin da quando venne improvvisamente nominato primo ministro per avere la legittimità di succedere a Boris Eltsin. Il sistema economico si è trasformato, con Putin, in una oligarchia di pochi tycoon, tutti legati al presidente, che hanno ottenuto il controllo delle principali industrie del Paese e anche dei mass media. In questo quadro è davvero curioso che un avversario venga “stoppato” ripetutamente (nel 2011 quando tentò di candidarsi a sindaco di Mosca, ora in vista delle presidenziali) a causa della stessa condanna, oltretutto sospesa.

E’ con questa idea di pluralismo che l’Italia vuole tessere dialoghi sempre più profondi? Ci si augura davvero di no. Si è più volte rilevato che il disegno di Putin è costruire l’Eurasia politica col Cremlino al centro: un progetto antagonista a quello europeo, dell’Unione Europea come la conosciamo, che da quand’è sorta è garante della pace nel Continente, del libero scambio di merci, della libera circolazione delle persone, soprattutto generatrice di apparati legislativi e burocratici sempre più simili tra loro in quasi trenta Paesi. E che difende e tutela le libertà economiche, quelle sociali e personali, nonché la concorrenza tra imprese e tra territori. Tutta diversa sarebbe la prospettiva se fossimo inseriti nell’Eurasia del Cremlino: non avremmo forse da giustificare sulla tenuta dei nostri conti pubblici o sulla lotta alla corruzione o alle mafie, ma qui si ritiene che ci convenga la stretta sulla spesa pubblica, ci convenga un Paese sempre meno corrotto, ci convenga un Paese più libero dalla criminalità organizzata.

E di quale “sicurezza” in Europa parla il presidente Putin? Sappiamo che, dal 2014, la Russia ha destabilizzato l’Ucraina, annettendo la Crimea con un atto illegale dal punto di vista delle relazioni internazionali (non vale affatto il principio di autodeterminazione dei popoli, che non si applica alle “secessioni” ma a chi è oppresso da dominazione straniera con la forza, e ancor più non vale per la Crimea, dove si è tenuto un referendum farsa). Non solo, ma – apertasi la crisi in Ucraina dell’Est, nella zona del Donbass – la Russia non solo ha prontamente riconosciuto le autoproclamate repubbliche di Donetsk e Luhansk, con un atto che non ha certo facilitato la soluzione pacifica del conflitto, ma ha successivamente giocato un ruolo da antagonista dello Stato ucraino anche dopo la stipula degli accordi di Minsk, tanto che ancora oggi questi non sono stati efficacemente applicati.

Citando gli accordi di Minsk, non ci è possibile non parlare di una struttura prevista da quegli accordi che, a causa dei russi, rischia di non funzionare più. Si tratta del “Centro congiunto per il controllo e coordinamento del cessate il fuoco”, situato a Soledar (Donetsk): dal 2014 è l’unico canale di comunicazione tra le forze militari ucraine e russe nella zona del conflitto, ma il 19 dicembre 2017 settantacinque militari russi lo hanno abbandonato, ufficialmente per disaccordo sul nuovo regolamento interno (pare non sia piaciuta la regola del divieto di fumo dopo le 22) ma anche per la nuova legge ucraina che imporrà, dal 1 gennaio 2018, i passaporti biometrici con impronte digitali, vietati da una legge russa per i militari russi. Due pretesti, giacché con buona volontà si sarebbero potuti facilmente risolvere. 

Il Centro congiunto funziona, o forse è meglio dire funzionava, in un modo semplice ma efficace. Se una parte del conflitto subiva un attacco, telefonava ai suoi referenti del Centro congiunto (i separatisti ai militari russi, l’esercito ucraino a quelli ucraini) e immediatamente si intavolava una trattativa che, in diversi casi, è stata efficace per far cessare l’attacco. Tra le ipotesi sulle reali ragioni dell’abbandono del Centro congiunto da parte dei russi, una delle più accreditate è che Mosca cercherebbe di portare gli ucraini e i separatisti a parlarsi direttamente, senza mediazioni, in modo da accreditare la versione che sia in corso una guerra civile e non una ingerenza dall’esterno. Ma, di fatto, il ritiro dei russi ha portato immediatamente a un’escalation del conflitto, come riferito da Ertugrul Apakan, capo missione Osce in Ucraina. L’Osce stessa avrà ora maggiori difficoltà nel suo lavoro: prima, quando desiderava pattugliare una zona controllata dai separatisti lo comunicava alla parte russa del Centro congiunto per assicurarsi il via libera. Ora questo non sarà possibile. Lo stesso accadeva quando c’erano urgenti necessità come riparazioni di linee elettriche, gasdotti, condotte dell’acqua danneggiate dal conflitto: il Centro congiunto ordinava il cessate il fuoco per il tempo necessario a riparare le infrastrutture. Anche questo non sarà più possibile.

Abbandonare l’unico meccanismo per un contatto “non ostile” tra russi e ucraini in Donbass è senza dubbio il modo peggiore per garantire e migliorare la “sicurezza” in Europa, come il Putin mellifluo degli auguri di capodanno pretende di voler fare. Timeo Danaos et dona ferentes, si diceva all’inizio. Qualunque distensione nei rapporti con il Cremlino non può tradursi nella cristallizzazione di una crisi in cui il Cremlino stesso ha giocato un ruolo determinante. Il 2018 è un anno elettorale in Italia, e mai come ora la competizione è tra visioni diverse del futuro europeo. C’è un forte blocco antieuropeo e anche, guarda caso, filo-moscovita, che va dal Movimento 5 Stelle a tutto il centrodestra. Ora più che mai è necessaria la presenza (nel dibattito pubblico e in Parlamento) di un’altra idea, che difenda l’Unione Europea dagli attacchi politici a cui è sottoposta e anche dai tentativi d’indebolimento dall’esterno.