Unione bancaria: Modell Deutschland? Ma anche no
Istituzioni ed economia
Perché, dopo l’accordo al ribasso sull’Unione bancaria, rigoristi convinti ed europeisti sinceri farebbero bene a non schierarsi (acriticamente) con la signora Merkel
Cari sostenitori dei conti in ordine, cari europeisti col sogno di un’Unione europea che sia rigorosa oggi per essere utilmente federalista domani: il portavoce giusto per voi non è la Cancelliera tedesca Angela Merkel. Lo ha dimostrato ancora una volta, nelle ultime settimane, la vicenda dell’Unione bancaria europea, oggetto del Vertice europeo più importante degli ultimi mesi, quello del 19 e 20 dicembre scorso.
L’Unione bancaria, nella sua versione definitiva, si dovrà fondare su tre pilastri: il sistema di supervisione unico sulle banche (Single Supervisory Mechanism), il sistema di risoluzione delle crisi bancarie (Single Resolution Mechanism) e quello di garanzia dei depositi accentrati a livello europeo. L’obiettivo finale è interrompere il circolo vizioso tra Stati sovrani e istituti di credito (con i primi che si indebitano troppo per salvare i secondi, e i secondi che acquistato troppi bond governativi per puntellare i primi), riattivare la fiducia dei mercati nelle banche dell’area e dunque rianimare nel medio-lungo termine il credito che in alcuni Paesi dell’Eurozona è collassato. Dall’incontro di dicembre tra capi di Governo dell’Ue ci si attendeva una svolta sul secondo pilastro, il Meccanismo unico di risoluzione, visto che la vigilanza sugli istituti è già in capo alla Banca centrale europea che da gennaio a novembre 2014 passerà al setaccio i bilanci dei 130 principali istituti di credito del continente. Eppure tale svolta, a detta della maggior parte degli analisti, non c’è stata, e per varie ragioni.
1. Innanzitutto perché il processo decisionale stabilito per il Meccanismo unico di risoluzione, che sovrintenderà a ristrutturazioni e fallimenti bancari, è lento e concede troppo spazio ai veti nazionali. L’idea originaria, cioè che fosse la Commissione Ue, sentito il parere della Bce, a decidere sulla sorte delle banche in crisi, è stata infatti accantonata soprattutto per volontà di Berlino: adesso, secondo i calcoli del Financial Times, il processo decisionale potrebbe coinvolgere in totale nove commissioni e avere bisogno di un massimo di 143 votazioni. Difficile, in questo modo, prendere decisioni equilibrate e rapide, come converrebbe in tempi di mercati finanziari ipersensibili.
2. Inoltre, è vero che dal 2025 avremo un paracadute finanziario comune di 60 miliardi di euro alimentato dalle banche europee per intervenire a sostegno degli istituti in difficoltà, ma fino ad allora il terreno rimarrà accidentato: ci saranno obbligazionisti, azionisti e depositi bancari oltre i 100 mila euro da tosare (il cosiddetto “bail-in”), poi i fondi nazionali da costituire, e solo in ultima istanza il Meccanismo europeo di stabilità (Esm) cui attingere per dei prestiti, peraltro non in maniera diretta, come invece fu annunciato nel 2012, ma solo al verificarsi di alcune condizioni. Condizioni che andranno di volta in volta concordate con gli Stati membri, a detrimento di certezza delle regole e tempismo degli interventi. Ammesso poi che si arrivi al 2025 senza necessità di attivare questo meccanismo farraginoso, va pur detto che allora avremo a disposizione un paracadute finanziario pari allo 0,2-0,3% del totale attivo dell’industria bancaria dell’Eurozona, secondo i calcoli del Centro Europa Ricerche, cioè “un ammontare non sufficiente per evitare che il fallimento di una o più banche contagi l’intero sistema, tra cui anche le stesse banche tedesche”. Per il Financial Times, questo schema uscito dalle trattative è “pesantemente influenzato dagli sforzi della Germania di tenere i suoi contribuenti liberi da qualsiasi impegno”.
3. Se a tali limiti aggiungiamo che tutto si baserà su un nuovo regolamento comunitario e da un nuovo Trattato interstatale da stilare e da far approvare a tutti i Parlamenti coinvolti, si comprende perché la strada verso un’Unione bancaria efficiente sia decisamente in salita. Il presidente della Bce, Mario Draghi, aveva definito questa riforma istituzionale come la più importante dal momento dell’introduzione dell’euro. Evidentemente gli errori di allora non sono serviti da lezione per l’oggi. Così, quando nel novembre 2014 la Bce avrà terminato i suoi esami del sangue al comparto bancario, i contribuenti non potranno dormire sonni tranquilli nel caso di difficoltà per qualche istituto, né gli investitori saranno davvero rassicurati sulle prospettive del settore.
Tuttavia non è mancato, tra i commentatori, chi abbia mostrato comprensione per le ragioni del governo tedesco, o addirittura chi abbia lodato Berlino per le motivazioni ideali che l’avrebbero spinta a “resistere” alle richieste altrui: secondo questo punto di vista, nessuno - a partire dal contribuente teutonico - ci guadagnerebbe davvero da una condivisione di rischi e oneri finanziari tra i Paesi dell’Eurozona. Quindi avrebbe fatto bene Berlino a tenere la sua linea: zero concessioni ai Paesi spendaccioni che si affacciano sul Mediterraneo. Dimenticando che però questa volta la Merkel, tenendo tale linea di condotta apparentemente “rigorista”, non ha soltanto rallentato pericolosamente il processo d’integrazione, prestando il fianco a nuove turbolenze finanziarie nei prossimi mesi; ha anche contraddetto, piuttosto platealmente, uno dei princìpi ideali che guida in teoria la sua azione in Europa.
Finora, dagli ambienti istituzionali tedeschi, si è sempre ripetuto infatti che il governo tedesco non è per principio contrario a una mutualizzazione dei rischi tra Paesi europei; tale condivisione però – a partire dal fronte della politica fiscale – si potrà realizzare soltanto quando l’Ue avrà un maggiore controllo sui Paesi potenzialmente irresponsabili. In questo modo non si incentiveranno comportamenti irresponsabili, del tipo: il Paese X spende e spande senza criterio, visto che dopo la Germania interverrà comunque a saldare il conto. Questa tesi, cioè “prima l’Unione politica e poi quella della solidarietà”, o ancora “prima mostrare rigore e poi vedere cammello”, la sostenne la stessa Merkel, in un’intervista concessa nel gennaio 2012 ad alcuni giornali europei, a proposito degli ormai celebri Eurobond: “Nella crisi attuale gli Eurobond non sono una soluzione. Si potrà riflettere su una maggiore responsabilità in comune, solo quando l’Europa avrà raggiunto un’integrazione molto più profonda, non però come strumento per superare la crisi. Un’integrazione più profonda prevede, ad esempio, che la Corte di Giustizia europea controlli i bilanci nazionali, e questo non è tutto. Se un giorno avremo una politica finanziaria e di bilancio armonizzata, allora si potranno trovare anche altre forme di cooperazione e di condivisione della responsabilità”. In altre parole, secondo Berlino, a più integrazione a monte (cioè nella fase di controllo) potrà seguire più integrazione a valle (nella fase di spesa comune o emissione di debito comune).
Sull’Unione bancaria, teoricamente, si sarebbe dovuto procedere allo stesso modo. Invece la leadership tedesca, dopo aver favorito una condivisione dei poteri di controllo da esercitare sugli istituti di credito degli Stati membri, accentrando il tutto nelle mani di un’istituzione indipendente come la Bce (peraltro non lontana dalle sensibilità teutoniche), ha mostrato comunque una netta ritrosia a condividere rischi e oneri potenziali che dell’Unione bancaria sono il necessario pendant. Ha detto “no” al potere d’intervento di un’istituzione comune sovranazionale e terza sulle banche tedesche. “No” alle risorse comuni per puntellare le banche europee in difficoltà, se non a partire dal 2025 e per un ammontare irrisorio. Ha detto “sì” invece ai soldi dei contribuenti per salvare le banche tedesche, visto che il governo Merkel II ha già speso 60 miliardi di euro per questa voce dall’inizio della crisi. E “sì” infine all’esenzione dai controlli della Bce per centinaia delle sue potenti banche locali, spesso malconce, come ottenuto da Berlino dopo una battaglia campale combattuta nei mesi scorsi. Quando l’interesse nazionale chiama, dunque, non c’è “unione politica” o “rafforzamento dei controlli comuni” che tenga: con gli altri Paesi europei meglio avere poco a che spartire.
Altro che strenua difesa dei principi di mercato e del portafoglio del contribuente, in nome di un futuro più solido per l’Europa unita. Piuttosto, come ha scritto Federico Fubini su Repubblica, la Germania pare affetta da una “sindrome” che i tedeschi “vedono come tipicamente italiana”: così come Roma nel 2012 rallentò il ritmo delle riforme dopo che la Bce aveva allestito la sua rete di sicurezza per i debiti pubblici degli Stati con l’Omt (Outright monetary transactions), allo stesso modo “passata la fase acuta del terremoto sull’euro con la svolta della Bce di un anno e mezzo fa, anche il governo di Angela Merkel ha messo da parte gli impegni che lasciavano sperare in un’architettura credibile per l’Unione bancaria e la moneta unica”. Rigoristi consapevoli ed europeisti convinti, alla luce di una così palese e interessata incoerenza da parte dell’attuale leadership tedesca, faranno bene a scherzare meno invocando “una Merkel per l’Italia”. Meglio per loro, alla luce dei fatti, cambiare cavallo. Con il rischio, ben inteso, di continuare a piedi in mancanza di valide alternative.