euromaidan

Il prossimo 24 novembre, a Bruxelles, si terrà l’Eastern Partnership (EaP) summit tra i capi di stato dei Paesi membri della UE e quelli dei sei stati partner: Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Moldova e Ucraina. L’incontro, il quinto dal 2009, anno in cui ha preso il via il programma per promuovere l’integrazione politica ed economica tra la UE e le sei repubbliche ex-sovietiche, sarà l’occasione per riflettere su quanto conseguito finora, sulle sfide future che attendono Yerevan, Baku, Minsk, Tbilisi, Chisinau, Kyiv, la stessa UE (minacciata al suo interno da forze populiste spesso legate con un filo diretto a Mosca) e sui mezzi più efficaci da adottare per proseguire lungo il cammino sin qui tracciato.

Il meeting di Bruxelles, che l’analista Andrew Wilson, consulente del Consiglio Europeo sulla Politica Estera, considera cruciale per diverse ragioni, non ultima quella di riaffermare un ruolo assertivo dell’Europa al fine di garantire anche la sicurezza dei suoi confini, si tiene nei giorni in cui in Ucraina ricorre il quarto anniversario della Rivoluzione della Dignità. Il Maidan di Kyiv, inizia infatti la notte del 21 novembre 2013 quando Mustafa Nayyem, giornalista ucraino di origini afghane, con un post su Twitter, usando l’ashtag – poi diventato virale – Euromaidan, chiede alla gente di scendere in Piazza per protestare contro la mancata firma dell’Accordo di Associazione economica tra Unione Europea e Ucraina, promessa, mai poi rigettata all’ultimo momento su pressione del Cremlino, dall’ex Presidente Yanukovych.

A distanza di quattro anni da quell’evento, le cui conseguenze hanno generato la più grave crisi geopolitica nello spazio post-sovietico dal crollo del Muro di Berlino, è fondamentale fare il punto sulle riforme attuate a Kyiv dal nuovo corso politico. Lo stato di salute dell’Ucraina costituisce infatti l’elemento di maggior rilevanza dell’intero EaP, considerato il ruolo pivotale di tale nazione nel programma. Nella prima parte dell’articolo passeremo brevemente in rassegna i risultati conseguiti dalla Presidenza Poroshenko sul fronte esterno ed interno, evidenziando successi, fallimenti e aree in cui è necessario agire con maggiore determinazione e tempestività per allineare il Paese agli standard europei. Nella seconda parte cercheremo invece di spiegare perché il successo del programma di integrazione politica ed economica dei sei paesi in vista di un futuro ingresso nella UE, peraltro non ipotizzabile in tempi brevi, dipenda sostanzialmente da una “success history” in Ucraina.

Contrariamente alle previsioni di molti analisti l’Ucraina, nonostante la perdita di territorio (Crimea e parte del Donbas), non si è dissolta nel giro di pochi mesi ma ha dimostrato una sorprendente capacità di tenuta cementata dall’accresciuto senso di unità nazionale originato proprio dall’invasione russa. Con la firma del trattato di Associazione con la UE l’Ucraina ha inoltre messo in chiaro che vede il suo futuro in Europa.

In questi tre anni e mezzo di conflitto l’Ucraina ha dimostrato una forza che in pochi avrebbero ipotizzato nel 2014. L’Occidente ha fornito aiuto al Paese in quattro aree (diplomazia, sanzioni contro la Russia, assistenza economico-finanziaria, cooperazione nella difesa) ma questo non mette al riparo l’Ucraina dall’aggressione russa, di fatto mai cessata, che prosegue utilizzando gli strumenti tipici della guerra ibrida (dezinformatsiya, cyber warfare, terrorismo, azioni militari etc). Quanto realizzato finora potrà essere consolidato solo se il Paese lavorerà sul fronte della coesione nazionale e questo dipende da una corretta allocazione delle risorse e dall’impegno congiunto di politici e società civile.

Firmato nel 2014 e ratificato nel 2017, l’Accordo di Associazione con la UE ha una dimensione politica ed economica. La componente economica formalizzata nel DCFTA (Deep and Comprehensive Free Trade Agreement) garantisce all’Ucraina l’accesso al mercato economico della UE, ma richiede profonde riforme e affinché il Paese possa godere dei benefici economici del libero scambio deve continuare con la sua agenda riformista. È innegabile che negli ultimi quattro anni sono state realizzate più riforme che nei precedenti ventidue ma molto deve essere fatto per allinearsi agli standard richiesti dall’Europa soprattutto sul fronte della lotta alla corruzione.

I maggiori risultati della presidenza Poroshenko sono stati la stabilizzazione dell’economia (nel 2016 il PIL è tornato a crescere), le riforme nel settore energetico e bancario (è stata eliminata la dipendenza dal gas russo, tallone d’Achille dell’Ucraina del post-soviet), l’introduzione del sistema di e-procurement ProZorro che garantisce maggiore trasparenza nel sistema degli appalti, la formazione di un esercito efficiente e professionale. Chi volesse approfondire questi temi può consultare The Struggle for Ukraine, report della Chatham House uscito qualche settimana fa. 

Veniamo ora all’analisi del ruolo dell’Ucraina all’interno dell’EaP. Prima però è opportuno fare qualche breve considerazione sull’evoluzione temporale dell’EaP.

Dopo la grave crisi ucraina del 2014 il programma ha subito un’accelerazione affinché Ucraina, Georgia e Moldova, i tre Paesi minacciati dalla Russia, sottoscrivessero l’Accordo di Associazione. Gli accordi sono operativi a Tbilisi e Chisinau dal 2016, a Kyiv dal settembre 2017. La grave crisi ha portato a un ripensamento dell’EaP. Per esempio si è reso necessario spiegare i vantaggi del modello europeo, cosa prima data per scontata. Leggendo il documento scritto a Bruxelles nel 2016 notiamo una maggiore enfasi sulle tematiche della sicurezza. Potremmo dire che l’EaP ha inglobato elementi di real politik.

In tale contesto si è attuata anche una politica di maggiore differenziazione che tiene conto delle specificità dei sei Paesi e del loro rapporto con la Russia. Un’altra sfida, interna agli stati membri, riguarda il dover contemperare diversi atteggiamenti nei confronti della Russia. La Polonia, tra i maggiori sponsor dell’EaP ai tempi di Tusk, l’Ungheria e per ragioni diverse l’Italia e la Grecia sono i quattro Paesi al momento più critici verso il programma. Nel caso italiano e greco pesano amicizie consolidate con Mosca, in quello polacco e ungherese, leadership che cavalcano populismo/nazionalismo e sentimenti anti-ucraini.

Andrew Wilson fa giustamente notare che una strategia di disimpegno sul fronte EaP comporterebbe l’aumento dell’aggressività russa e non il contrario. Prendiamo il caso di Ucraina, Moldova e Georgia, tre stati che non accettano di cadere nella sfera di influenza russa. Tutti e tre sono condizionati dalla Russia, ma se fossero isolati e non aiutati dalla UE, sarebbero soggetti a campagne ancora più aggressive del Cremlino per aumentare l’influenza. Questo renderebbe la situazione potenzialmente ancora più destabilizzante.

Il caso ucraino dimostra che la stabilità si ottiene attraverso il cambiamento. La Rivoluzione Arancione (2004) ed Euromaidan (2014) furono storicamente preceduti da periodi in cui la UE si interrogava sull’opportunità di una maggiore collaborare con Kyiv. Il disimpegno portò all’incremento della corruzione nel Paese e a una maggiore influenza russa. L’Ucraina, essendo il più vasto e il più importante dei sei Paesi dell’EaP, è quello in cui si gioca la partita decisiva del programma stesso. Riformare Kyiv, avvicinandola agli standard europei, significherebbe stabilire una “success history” che creerebbe un effetto domino positivo negli altri cinque stati. Perché ciò avvenga è necessario che la UE comprenda che all’interno dell’Ucraina e degli altri Paesi esistono diverse tipologie di interlocutori con sensibilità differenti rispetto all’agenda riformista. Wilson ne individua quattro: i riformatori, i controrivoluzionari, i security-seekers e i nazionalisti, e i fantocci del Cremlino.

I veri riformatori si trovano nella società civile, in particolare all’interno di molte Organizzazioni non governative, sorte al tempo del Maidan. Sono loro che spingono per le riforme trovando talvolta alleati nel governo. La UE deve continuare a sostenerle perché sono loro il vero motore del cambiamento nel Paese.

I controrivoluzionari non sono necessariamente coloro che promuovono una linea filorussa, ma anche quelli che trovano il loro modus vivendi nella corruzione (koruptsionery) e sono alla costante ricerca di nuovi schemi corruttivi (skhemshchiky).

Per un paese in guerra come l’Ucraina il problema della sicurezza nazionale è sicuramente una delle priorità. Nazionalisti e statisti, il cui scopo è ripristinare l’integrità territoriale, supportano tutte le riforme atte a rimuovere l’influenza russa in Ucraina, ma possono essere meno sensibili alle innovazioni in altri settori.

I fantocci del Cremlino sono ovviamente coloro che sia nel business, sia nel sistema giudiziario promuovono gli interessi russi in Ucraina. Alcuni di loro sono presenti anche nei negoziati di Minsk, non sul fronte separatista, ma su quello ucraino!

Individuare l’audience corretta per promuovere un’agenda riformista ed europea in Ucraina e negli altri stati dove troviamo più o meno le stesse tipologie di interlocutori è uno degli obiettivi chiave dei funzionari della UE. Ma il successo dell’EaP è strettamente legato anche alla sconfitta delle forze populiste e anti-europee nei Paesi membri. L’auspicio è che alla prossime elezioni italiane gli elettori sappiamo premiare le formazioni politiche dall’agenda europeista. La UE va sicuramente migliorata, ma fuori dalla UE non c’è futuro.