Tapparini Trump
Capire la politica estera di Donald Trump dalle sue prime mosse non è un compito facile. Il neo-eletto presidente degli Stati Uniti è un uomo che vuole rompere col passato. È e resta un’incognita.

Va fatta anche un’altra premessa: nel mondo non ci sono solo gli Stati Uniti, come troppo spesso si tende a pensare dalla fine della Guerra Fredda. La politica americana può essere condizionata dal comportamento di altri attori, spesso totalmente imprevedibili. L’amministrazione di George W. Bush, ad esempio, iniziò all’insegna dell’isolazionismo, poi ci fu l’attacco di Al Qaeda dell’11 settembre 2001, nemmeno un anno dopo il suo insediamento, ed ora viene ricordata come quella della politica globale di “esportazione della democrazia”. Fatte queste debite premesse, è possibile fare previsioni sulla politica estera di Trump partendo da alcuni dati di fatto: chi nomina, cosa dice e come.

Le nomine della sua amministrazione, sempre che vengano confermate in Senato, sono già molto indicative. Prima di tutto gli uomini del futuro presidente che dovranno gestire la politica estera, di sicurezza e di difesa, sono cooptati dal mondo del business e da quello militare. Sono dunque dei tecnici, estranei al sistema politico e al suo condizionamento. È un forte segnale di rottura. Ma di che tipo?

Trump ha nominato agli Esteri il Ceo della Exxon Mobile, Rex Tillerson, un gran negoziatore di contratti. Ha scelto generali in pensione del corpo dei Marine sia per la Difesa che per la Sicurezza Interna. Alla Difesa c’è James Mattis, che è uno dei maggiori esperti di strategia di contro-insurrezione e alla Sicurezza Interna c’è il suo collega John Kelly. E mettere un ex generale a capo di un ministero che gestisce l’immigrazione, oltre che l’ordine pubblico, indica pure che il flusso dei migranti sarà controllato con piglio decisionista e pragmatico, come fosse una crisi militare.

È molto indicativo anche il linguaggio che Trump ha già usato in ben due occasioni: non mostrare deferenza, non chiedere mai scusa, ostentare potenza. Alla morte di Fidel Castro non ha nascosto la sua ostilità al regime comunista cubano, definendo su Twitter il defunto come “dittatore brutale”. In occasione delle telefonate di congratulazioni, Trump ha rotto un protocollo in vigore da quasi quarant’anni intrattenendo una breve conversazione con Tsai Ling-wen, presidente di Taiwan. Alla reazione iraconda di Pechino, che considera l’isola come una sua “provincia ribelle” (status formalmente accettato dagli Usa sin dal 1979), Trump ha risposto sempre su Twitter: “Pechino chiede il nostro OK prima di svalutare la sua moneta (rendendo difficile la competizione delle nostre imprese)? O prima di imporre tasse sulle nostre merci d’esportazione (mentre noi non le imponiamo sulle loro)? O prima di costituire imponenti installazioni militari nel mezzo del Mar Cinese Meridionale? Non credo proprio”.

Con chi sarà in buoni rapporti il nuovo presidente? Non con l’Unione Europea: Trump ha esplicitamente sostenuto la Brexit, tanto per fare un esempio eclatante. Quanto alla Nato, Trump è stato il primo candidato a mettere seriamente in discussione il principio della mutua difesa: sarà rispettato solo con chi contribuirà attivamente alla sicurezza degli Usa. Con la Russia, al contrario, può creare un nuovo rapporto di partnership.

E qui è significativa la nomina di Tillerson: è amico di Vladimir Putin, partner di Igor Sechin, il “deus ex machina” dell’industria di Stato russa, ed è stato insignito nel 2013 con l’Ordine dell’Amicizia, una delle più importanti medagli che la Russia può conferire a una personalità straniera. Il Ceo di Exxon Mobil era contrario alle sanzioni alla Russia, che gli hanno fatto perdere l’occasione delle trivellazioni nel mar di Kara. Ora, quando sarà titolare degli Esteri, avrà modo di levarle, quelle sanzioni. Sempre che venga confermato dal Senato, però. Perché la maggioranza repubblicana non è altrettanto incline a considerare la Russia come un partner.

Dove si combatterà, se si combatterà? Nel Medio Oriente, contro Isis e Iran, identificati sin da subito come le principali minacce alla sicurezza nazionale statunitense. La nomina di James Mattis alla Difesa è garanzia che il programma sarà rispettato. Ha combattuto tutte le guerre del Medio Oriente degli ultimi venticinque anni, a partire dal comando di un battaglione nella Guerra del Golfo del 1991, fino ad arrivare ai vertici di Centcom (il comando Usa per le operazioni in Medio Oriente, Golfo e Asia Meridionale) nel 2010. È dunque l’uomo giusto per affrontare l’Isis, quello che conosce meglio il territorio e i popoli che lo abitano. Quanto all’Iran, dice tutto la scelta di Michael Flynn a capo del Consiglio di Sicurezza Nazionale: è anche un convinto avversario dell’accordo sul nucleare iraniano. Quello che Trump ha promesso di cestinare, una volta giunto alla Casa Bianca.

Al di là dei singoli fronti, la politica mediorientale di Trump promette di essere l’opposto di quella seguita dal 2001 in poi. Si tornerà al paradigma realista classico: negoziare con i governi, combattere i terroristi, ignorare le opposizioni interne. Viene dunque cestinata definitivamente la dottrina neoconservatrice: combattere le tirannie nel Medio Oriente che, con la loro violenza istituzionalizzata, erano viste come la vera causa di tutte le forme di terrorismo. Viene anche accantonata la dottrina Obama che aveva cercato di incoraggiare la nascita di un Islam democratico, sia nel mondo sciita (dialogando con i riformatori iraniani) che in quello sunnita (dialogando con i Fratelli Musulmani). Per Trump, che non ha alcuna fiducia nel mondo islamico in senso lato, entrambe le politiche si sono risolte solo in un immenso spreco di risorse.

Quale unico vero e proprio partner mediorientale, Trump guarda a Israele. Per rimarcare il concetto, il neo-eletto presidente promette di trasferire l’ambasciata statunitense a Gerusalemme, riconoscendola anche nei fatti come capitale indivisibile dello Stato ebraico.

L’ascesa imprevista e improvvisa del tycoon alla Casa Bianca dimostra che almeno due dibattiti sulla politica estera sono stati chiaramente vinti dal vecchio conservatorismo sul nuovo. Il vecchio conservatorismo antepone l’isolazionismo al ruolo globale a sostegno delle democrazie; il vecchio conservatorismo sceglie amici e nemici sulla base della religione più che sull’ideologia.

La politica estera di Trump, per quanto possiamo prevederla attualmente, segue questa logica: combatti solo chi ti sta minacciando direttamente, concludi accordi (temporanei e bilaterali) con chi ti può arricchire. Quanto alla scelta di amici e nemici su basi religiose, la Russia di Putin, agli occhi dei vecchi conservatori, è una nazione cristiana, dunque potenzialmente amica, mentre la minaccia è identificata nell’Islam. Non solo nel jihadismo e nei regimi islamici, ma nell’Islam in quanto religione, giudicato irrimediabilmente incompatibile con i valori della civiltà giudaico-cristiana occidentale (e non è un caso che vengano abbandonati tutti i tentativi di democratizzarlo). E poi c’è la Cina, che dalla nuova amministrazione viene vista più come una concorrente sleale che non come una sfida militare.

Andrà tutto come previsto? Napoleone era solito dire che la prima vittima in guerra è il piano. Non è detto che gli eventi e le scelte degli altri permettano a Trump di perseguire il suo sogno isolazionista.

Le contraddizioni sono già molto evidenti: Iran no e Russia sì, ma Teheran e Mosca sono alleate. La Russia sì e la Cina no, ma russi e cinesi non sono mai stati alleati come in questo decennio, con esercitazioni comuni e voti all’unisono in sede Onu. Queste e tante altre contraddizioni, all’atto pratico, potrebbero scoppiare e rovinare il disegno di Trump. All’Europa, intanto, conviene imparare a stare sulle proprie gambe, perché se c’è un progetto chiaro e facilmente realizzabile nella nuova amministrazione è proprio il disimpegno dal Vecchio Continente.