renzidimissioni

Matteo Renzi ha perso con classe il referendum sulla sua riforma costituzionale, riconoscendo la sconfitta e lasciando l'incarico di presidente del Consiglio.

Sono poco convincenti le accuse che gli sono state mosse, durante la campagna, sulla personalizzazione del referendum. In primo luogo perché la vicenda ha dimostrato che la personalizzazione può determinare risultati disastrosi, opposti a quelli desiderati. E' vero poi che Renzi ha difeso, forse con troppa esuberanza, il proprio operato di fronte ai cittadini, come farebbe un manager di fronte ai propri azionisti. Ma è altrettanto vero che nell'assemblea di una società così come in un voto referendario soci e cittadini sono gli unici responsabili delle loro decisioni di voto, a prescindere dai loro personali moventi. Le accuse di personalizzazione mosse al premier hanno rivelato invece l'idea cinica della democrazia di chi le ha avanzate: sono coloro per cui gli elettori non sono mai responsabili delle proprie scelte, ma sempre masse ottuse soggette all'azione di circonvenzione di incapace della propaganda, salvo quando votano in accordo con loro.

Il tema della personalizzazione offre però uno spunto per ragionare sulle cause della sconfitta di Renzi, e su questo primo epilogo della sua parabola politica. A partire da una premessa: in politica, come in economia, non esistono pranzi gratis. Se un'impresa accumula troppi debiti, rischia di precipitare in una spirale di indebitamento, ed essere costretta a contrarne ulteriori e più onerosi per cercare di sopravvivere, 'comprando tempo'. Ma prima o poi arriverà il momento di saldare i conti. In politica vale una logica analoga, laddove per far fronte a una carenza di legittimità, un leader entra in una 'spirale di compromessi' che ne logorano credibilità e consenso tra gli elettori.

Renzi si è presentato nel 2012 come un giovane "startupper" nell'arena democratica, capace di rinnovare radicalmente un partito paralizzato dalla rivendicazione autoreferenziale della "pubblica moralità" implicita alla tradizione culturale di sinistra, peraltro allora ormai apertamente contesa dal Movimento 5 Stelle. Lo ha fatto proponendo, in alternativa all'Italia "giusta" (a prescindere) di bersaniana memoria, un'idea di attività politica come elaborazione di obiettivi concreti e di assunzione personale di responsabilità nel loro conseguimento. La filosofia della "rottamazione" non riguardava tanto gli uomini: era in prima battuta abolizione del principio cattolico (condiviso dalla sinistra) per cui il peccato commesso dall'officiante - per quanto orribile - non invalida il sacramento, perché questo deriva dallo Spirito Santo o, nel caso specifico, dai "valori di sinistra". Con Renzi, la curia democratica avrebbe dovuto finalmente essere "accountable", capace di portare avanti politiche chiare e risponderne di fronte ai cittadini, non più relegati a massa informe su cui esercitare un potere pedagogico, ma appunto "azionisti" dell'azienda Stato.

E' probabilmente per questo approccio innovativo che il giovane leader fiorentino ha ottenuto, con le primarie del 2013 contro Gianni Cuperlo, il capitale di credibilità e consenso che lo ha reso protagonista della scena politica nazionale. Ed è questo capitale che Renzi non ha saputo gestire, investendolo tutto in una scommessa di esecutivo il cui funzionamento avrebbe richiesto inevitabilmente compromessi e metodi in stridente contrasto con gli obiettivi originari della 'startup renziana'.

Chi ha rivolto qualche aspettativa disinteressata allo spirito delle prime Leopolde non può dimenticare la perplessità provata quando Renzi fece il suo debutto da statista ricorrendo a una manovra di palazzo, ordita per destituire il premier e suo compagno di partito Enrico Letta. Quell'operazione, orchestrata allora da un Giorgio Napolitano preoccupatissimo per l'avanzata del settarismo liberticida del Movimento 5 Stelle (per lui facile da riconoscere, avendo conosciuto i tempi in cui in Europa c'erano i totalitarismi) alla tornata delle elezioni europee del 2014, consentì a Renzi di posizionarsi alla guida del governo.

A partire da quell'episodio tuttavia, la personalizzazione del potere, da molti scambiata per autoritarismo, dell'azione di governo e della gestione degli equilibri parlamentari divenne per Renzi una scelta obbligata. L'urgenza, da un lato, di produrre immediatamente risultati clamorosi - #lasvoltabuona, l'uscita dalla palude - all'altezza delle aspettative generate, si scontrarono infatti, fin dai primi giorni dell'esperienza di governo, con le agguerrite resistenze opposte dall'ingestibile Parlamento "tripolare" emerso dalle elezioni del 2013, e con le ostilità corporative di ogni tipo che storicamente ostacolano qualsiasi iniziativa riformatrice in Italia: da quelle interne alla pubblica amministrazione, all'università, alla magistratura, agli enti territoriali, alle dirigenze apicali della macchina decisionale dello Stato, a quelle 'private' dei soggetti intermedi (sindacati, associazioni di categoria, ordini), tutti votati tenacemente alla conservazione delle proprie rendite di posizione. A ridurre ulteriormente, e forse in modo sfibrante e decisivo, i margini di manovra del premier, com'è noto, è intervenuta poi l'opposizione interna della minoranza Pd.

Una tale resistenza al cambiamento avrebbe potuto forse essere vinta con un forte mandato popolare ed elettorale. Non potendovi fare affidamento (salvo il 'surrogato' del 40% alle europee del 2014), pur di mantenere una qualche efficacia di governo, Renzi nei mille giorni del suo mandato è dovuto ricorrere sempre più a metodi opachi e poco ortodossi. Si è così trovato a dover controllare direttamente o attraverso il "giglio magico" dei suoi più stretti collaboratori molte iniziative di governo (a scapito delle competenze dei ministeri), o a ricorrere alla gestione - evocativa secondo alcuni dello stile di governo della Democrazia Cristiana nella prima Repubblica - dei rapporti con i centri del potere pubblico o 'parapubblico' attraverso reti di relazioni informali e personali.

Il tentativo poi di compensare queste forzature con la sua abilità comunicativa, e con misure di consenso immediato fondate su maggiore spesa (dai discutibili '80 euro' di riduzione irpef ai dipendenti, fino al sorprendente bonus cultura di 500 euro ai diciottenni, presentato come misura di contrasto al terrorismo), ne hanno poi forse reso ancora più evidente il contrasto stridente con il messaggio renziano originario.

La sconfitta di Renzi al referendum del 4 dicembre sulle riforme costituzionali non ha sancito il fallimento del progetto riformista del leader fiorentino, ma del tentativo di realizzarlo attraverso uno governo di scorciatoie, di misure ‘una tantum’, di riforme azzoppate dalla necessità di gestire relazioni e alleanze tattiche, di tweet e slide, invece che fondato sulla legittimità necessaria a fare riforme inevitabilmente impopolari, perché dirette a scardinare sistemi di relazioni consolidati. Per quella serve l'autorevolezza capace di conquistare la fiducia degli investitori in un progetto politico, cioè i cittadini.

Molti renziani guardano al 40% ottenuto alle urne referendarie come alla base da cui ripartire. Dovrebbero considerarlo invece un monito ad evitare l’errore di volere tutto subito, al costo di sacrificare la credibilità che, nel lungo periodo, è il presupposto necessario per la buona riuscita di qualsiasi progetto innovatore.