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Le presidenziali americane ci hanno consegnato l’esperienza dell’indicibile che si fa reale, non tanto perché un personaggio fuori dagli schemi è diventato presidente - lo erano anche, fuori dagli schemi, a loro modo anche Barack Obama e Ronald Reagan - ma perché l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca gli schemi non li aggira, né li schernisce, ma li distrugge.

Se la prima irruzione delle masse nella vita politica e sociale delle nazioni, nella prima parte del ‘900, aveva coinciso con la creazione di liturgie civili che si perpetuavano attraverso codici e rituali a loro modo rassicuranti, benché diversi da paese a paese, oggi è la stessa religione laica della “volontà generale” a demolire buona parte della struttura ideale che aveva essa stessa creato e sulla quale la democrazia statunitense ha poggiato per almeno un secolo.

Una “volontà generale” che si esplicita essenzialmente nella sua scintilla iniziale, più che nel percorso democratico - a questo punto poco più che una formalità - che la porterà ad affermarsi.

Donald Trump è stato, nel percorso che lo ha condotto alla Casa Bianca, molto più e molto meno di una opzione tra le opzioni possibili. La sua campagna elettorale non è costata molto, ma - è stato calcolato - se avesse dovuto pagare di tasca sua l’esposizione mediatica della quale ha beneficiato gratis, ci sarebbero voluti almeno un paio di miliardi di dollari.

L’America - almeno, una buona fetta di America - ha preso Donald Trump e lo ha portato al potere di nascosto, senza dirlo a nessuno - men che mai ai sondaggisti - ma illuminandogli la strada con le luci dei riflettori. Lo ha condotto al trionfo nonostante lo stesso Donald Trump: nonostante il suo passato, la sua impresentabilità ben più che formale, malgrado la sua inesperienza: com’era quella storia che puoi fare il presidente solo se sei stato almeno Governatore o senatore? Lo ha scritto stamattina efficacemente Francesco Costa nella sua newsletter sulle elezioni che è stata, in questi mesi, un utile e inconsueto strumento di analisi e approfondimento:

“È un argomento che non riguarda il fatto che Trump possa piacervi o no, ma è il fatto che nessun candidato del passato sia e sarebbe sopravvissuto a vent'anni di tasse federali non pagate, alle prese in giro a un disabile, agli insulti ai genitori di un soldato morto, alle bugie e le teorie del complotto, al vantarsi del molestare le donne, e sapete quanto a lungo potrebbe continuare la lista.”

Eccoli, gli schemi demoliti, non tanto da Trump ma dalla “volontà generale” che ha usato Trump per farli a pezzi.

Resta da capire - in parte ce ne siamo già occupati - quale sia stato il pull factor che ha acceso i motori di questo fenomeno, che si inquadra perfettamente nella generale perdita di credibilità delle élite occidentali di fronte a una globalizzazione che ha moltiplicato le opportunità ma compresso e frustrato le aspettative di benessere del ceto medio: quegli Stati industriali che avrebbero dovuto garantire la vittoria della Clinton erano quelli che pochi anni fa hanno visto le periferie trasformarsi in vere e proprie ghost town, culle della rabbia e del risentimento operaio.

Restano da indagare - e lo faremo nei prossimi giorni - in maniera più approfondita i flussi e le dinamiche elettorali di queste elezioni, in particolar modo questa nuova faglia orizzontale che divide le città e chi le abita dal resto del continente, e che sarebbe oggi fin troppo facile e autoconsolatorio rappresentare attraverso il cliché del gap culturale tra ceti urbani e America rurale.

Resta soprattutto da capire quali saranno le nuove coordinate alle quali dovremo abituarci, e se sarà Trump a cambiare l’America o l’America a cambiare lui. Ma l’impressione è che l’America sia già cambiata, e con lei un bel pezzo di Occidente. E che Trump non sia altro che il prodotto - e non l’artefice - di questa metamorfosi.