Pizzarotti

Temo che abbia ragione Grillo e mi dispiace. Dopo il suo quarto d'ora di celebrità per essere formalmente uscito da un partito, da cui di fatto era stato già buttato fuori molto tempo fa, Pizzarotti rischia di finire come gli ex leghisti - Miglio, Pivetti, Formentini, Comino, Gnutti, Pagliarini... - che, caduti in disgrazia presso il leader supremo o spazientiti dalle sue giravolte, reagirono alle provocazioni, ai silenzi e alle trappole di Bossi e finirono molto presto nel dimenticatoio, alcuni più decorosamente, altri meno, ma tutti ugualmente spazzati via dalla scena politica.

È un fenomeno assolutamente comune nelle organizzazioni carismatiche, dove la leadership e il principio di autorità finiscono per consustanziarsi nella figura del capo e dove l'accusa di "tradimento" non designa l'incoerenza, ma la disobbedienza e quindi non può essere usata contro il potere, ma solo dal potere. Il M5S non fa eccezione, se non per il fatto che ha in qualche misura ingegnerizzato gli standard politico-organizzativi dei partiti personali, rendendoli di fatto invisibili, attraverso la semplice duplicazione delle piattaforme.

Quella vera - che controlla il simbolo, i quattrini, il sistema operativo e le scelte politiche - è nelle mani "personali" di Grillo, del commercialista e del nipote; quella finta, che si agita in rete attivandosi e a disattivandosi a comando, è il simulacro della "volontà generale" che il sistema Rousseau, gelosamente custodito nei server della Casaleggio, dovrebbe distillare dai desideri del popolo.

Per quante ragioni abbia Pizzarotti a contestare, anche in punto di diritto, l'arbitrarietà della sua sospensione, le contraddizioni di Grillo e la doppia morale "rivoluzionaria" dei suoi colleghi sindaci a 5 Stelle, ha però torto sull'essenziale. Non c'è stata alcuna degenerazione politica nel M5S. Era una Fattoria degli animali e lo è rimasta. Sono cambiate (e aumentate di numero, con l'aumento dei consensi) le teste tagliate e i traditori esposti alla gogna, ma la regola della casa è rimasta esattamente la stessa, come era stata pensata dal primo momento.

Non perché Grillo e Casaleggio fossero "cattivi", ma perché in quella regola c'era la logica e la ragione dell'impresa: prendersi il banco della politica post-democratica e post-partitica, rifiutare qualunque forma di istituzionalizzazione interna e esterna, farsi strumento universale e ideologicamente neutro di punizione e di vendetta, in una fase storica in cui il "voto-contro" avrebbe dominato la scena.

Come il comunismo reale non è stata una degenerazione del comunismo ideale, ma più banalmente la sua realizzazione, così anche il "grillismo reale" non è un'offesa alle speranze sincere del popolo dei meetup, dei Vaffa days, dell'o-ne-stà manettara. È, al contrario, la sua rappresentazione più coerente. Sarebbe forse più utile che Pizzarotti e i molti che, in buona fede, "ci avevano creduto" e saranno via via sacrificati sull'altare di nuove convenienze facessero un passo avanti e riconoscessero in primo luogo l'errore di "averci creduto".

Politicamente un Pizzarotti tendenza Pivetti non serve a niente, un Pizzarotti tendenza Silone potrebbe essere molto più prezioso per svegliare l'Italia dall'incantesimo dell'esorcista antipolitico.

@carmelopalma