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Massimo D’Alema, lo sta dichiarando e ribadendo con frequenza crescente, è favorevole ad una riforma della Costituzione italiana. Nelle ultime settimane, l’ex presidente del Consiglio ha parlato più volte di una sua proposta di modifica della Carta, a suo dire alternativa a quella sottoposta all’approvazione referendaria del prossimo autunno.

La condizione preliminare che D’Alema indica come necessaria per iniziare un “serio” tentativo di ammodernamento della Costituzione è ovviamente la bocciatura referendaria della riforma attuale. Ma in cosa, concretamente, la proposta di D’Alema si differenzia dalla riforma Boschi? In fondo a questo articolo, trovate un quadro prospettico.

D’Alema non lo ammetterebbe mai, ma la ratio della sua proposta è in alcuni punti sovrapponibile alla riforma attuale: il voto di fiducia al governo attribuito alla sola Camera dei Deputati, la riduzione del numero dei parlamentari e il tentativo di semplificare e velocizzare il procedimento di approvazione delle leggi.

Perché allora l’ex segretario dei DS sostiene il No al referendum? A suo dire, perché le modalità di elezione dei nuovi senatori (scelti dai Consigli regionali tra i propri membri, più un sindaco per regione) non garantirebbero la funzionalità del Senato: “Sindaci e consiglieri regionali – evidenzia D’Alema - possono trascorrere cinque giorni a Roma nelle commissioni parlamentari?”.

In realtà, per come disegnato, il nuovo Senato avrebbe un carico di lavoro sicuramente inferiore a quello attuale, tale da non giustificare un’attività “full time”: a parte le limitate materie per le quale sopravvivrà il bicameralismo paritario, per il grosso della legislazione il ruolo del Senato sarebbe eventuale e temporalmente concentrato. Di più, Palazzo Madama non dovrà puntare a “recuperare” il bicameralismo paritario con un eccesso di interventismo – i cinque giorni a Roma di cui parla D’Alema - ma dovrà limitare la sua azione al nuovo ruolo di garanzia e rappresentanza delle istanze territoriali nella legislazione nazionale.

La soluzione alternativa proposta da D’Alema per la formazione delle leggi è un paradosso: un Senato che non esprime la fiducia al governo, e che dunque potrebbe avere un colore o una composizione politica diversa da quello della Camera, si troverebbe a condividere paritariamente il potere legislativo con la Camera. Un modello impraticabile di “bicameralismo paritario ma non troppo”.

La domanda che andrebbe posta a D’Alema è la seguente: se l’obiettivo di tutti, par di capire, è superare il bicameralismo paritario, ridurre il numero dei parlamentari e semplificare l’iter di formazione delle leggi, perché dovremmo sprecare l’occasione del referendum d’autunno? Perché rinunciare a due anni di lavoro parlamentare, per poi chiedere allo stesso Parlamento di produrre in tempi rapidi una riforma tutto sommato simile?

Se con il referendum la riforma verrà approvata, tra pochi mesi avremo la nuova Costituzione. Se verrà bocciata, non ci saranno praticamente i tempi perché questa legislatura possa produrre una nuova riforma (ricordiamo: è necessaria una doppia lettura di Camera e Senato, a distanza di tre mesi l’una dall’altra) da sottoporre ad un nuovo referendum.

La verità è che bocciare la riforma significa tenerci per diversi anni la Costituzione che c’è. È una scelta legittima, per chi ha l’onestà intellettuale di riconoscerla. Le evocazioni di nuove possibili riforme “a presa rapida” e “chiavi in mano” come quella di D’Alema sono invece intellettualmente poco oneste. Everything but Renzi, così gli anglosassoni riassumerebbero il vero pensiero del fu Lìder Massimo.

 

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